Presidi divisi sull’efficacia della nota ministeriale. C’è chi invoca strumenti concreti, chi punta sull’educazione e chi segnala i limiti di un approccio sanzionatorio

La recente nota ministeriale sull’uso dei dispositivi digitali a scuola solleva un’ondata di critiche tra i dirigenti scolastici. Tra i più espliciti, Alessandro Giorni, preside dell’istituto Galileo Galilei, che contesta l’impostazione del provvedimento: «Occhieggia a parte del corpo docente lusingandolo con un presunto richiamo all’autorevolezza, ma richiama sanzioni e divieti. È un impianto mal fondato, fuori tempo massimo e scientificamente debole».

Giorni critica anche la scelta di affidare alle scuole l’attuazione pratica del divieto: «Se il ministero ritiene che non possiamo gestire i cellulari, ci dia strumenti. Altrimenti, si fidi davvero dell’autonomia scolastica, senza imporre un divieto altisonante gestito da ottomila scuole in ordine sparso».

Dove il divieto esiste da anni, come al Galileo di Firenze guidato da Liliana Gilli, il problema è ormai superato. Ma in molte scuole resta acceso il dibattito su quali sanzioni educative siano davvero efficaci.

Marco Menicatti, preside che ha guidato la Barsanti di Firenze e ora il Giotto-Ulivi di Borgo San Lorenzo, è scettico sulle punizioni: «Note e voti bassi servono a poco. Meglio far recuperare il telefono ai genitori... ma nel pomeriggio: una contravvenzione educativa».

Al Giotto-Ulivi, gli smartphone vengono raccolti all’inizio delle lezioni, ma qualcuno trova il modo di aggirare la regola portando con sé un secondo telefono. C’è persino chi ha lasciato in consegna una calcolatrice. E mentre si pensa di tornare ai pagamenti in contanti al bar scolastico, per scoraggiare l’uso dei cellulari, Menicatti ribadisce: «Più che vietare, dobbiamo trovare il modo per coinvolgere i ragazzi. Solo così potranno dimenticarsi, almeno per qualche ora, di avere uno smartphone in tasca».

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