“Se i libri hanno un senso, se la letteratura può fare qualcosa, è anche accendere delle luci su dei luoghi, su degli angoli del mondo”. Federica Manzon, vincitrice della sessantaduesima edizione del Premio Campiello, presenta “Alma” (Feltrinelli) con la giornalista Laura Montanari al Gabinetto Vieusseux nell’ambito della rassegna letteraria Intemporanea.
Alma, la protagonista, torna tre giorni a Trieste per ricevere l’eredità del padre, un uomo che lavorava per il maresciallo Tito. Per Alma è l’occasione per fare i conti col passato: la casa dei nonni materni punto fermo e la sua dove un giorno arrivò il coetaneo di dieci anni Vili, figlio di due intellettuali di Belgrado amici del padre caduti negli ultimi anni del governo di Tito sotto l’occhio delle purghe del governo. Vili che per Alma è “un fratello, un amico, un antagonista”.
Il passato familiare si intreccia a quello storico, la Jugoslavia e la guerra dei Balcani. “Trieste è il primo avamposto di un sogno”, dice Federica Manzon, “Le nostre storie nascono dagli incontri col diverso da noi, dal tentativo di capire cosa non capiamo”.
La madre di Alma lavora con i “matti” di Basaglia e il padre chi è? “Un uomo del mondo jugoslavo, la cui parabola corrisponde a quella della storia della Jugoslavia. Racconta alla figlia la libertà di spostarsi, perché il passaporto gli permetteva di viaggiare nei blocchi occidentale e orientale. È un padre sfuggente. Le insegna a non guardare troppo indietro, al passato, perché ti impedisce di costruirti un futuro del tutto nuovo; a portarsi quindi un bagaglio leggero, salvo poi lasciarle un’eredità che la richiama indietro, perché il libro è pieno delle contraddizioni che i personaggi attraversano”.
Qual è stato il passaggio del romanzo più difficile da scrivere? “L’assedio di Vukovar, la prima scintilla del conflitto nei Balcani. Vukovar era una città mista con delle grandi fabbriche in cui venivano per lavorare da tutta la Jugoslavia. L’ho potuta raccontare perché sono passati trent’anni, è una storia molto controversa. In quel momento gli equilibri in casa di Alma si frantumano, perché Vili manca da Belgrado da dieci anni, ma sente il richiamo della ‘sua gente’ anche se è il contrario dell’educazione ricevuta dai genitori jugoslavi e da quelli a Trieste in casa di Alma. La geografia ci determina nel nostro carattere e nelle relazioni”.
Come e quando scrive? “Mai di getto, scrivo faticosamente e ogni scusa è buona per non scrivere. Da sola, a letto, non deve esserci nessuno in casa, ci metto un po’ a entrare nella scrittura. Non mi appunto mai le idee per le storie, perché se me le dimentico non erano abbastanza forti per me. Inizio a scrivere quando si è già molto formato dentro di me un mondo, una domanda che mi interroga, in questo caso a che luogo apparteniamo e poi una domanda rispetto alle guerre. Poi nascono piano piano i personaggi, passa del tempo, inizio a scriverli, stavolta sono andata ancora più cauta, perché trattando la guerra dei Balcani volevo trovare un modo sufficientemente onesto, dato che ci sono tanti autori della ex Jugoslavia che possono raccontare la guerra in presa diretta meglio di me, per cui mi chiedevo quale fosse il punto di vista che io avessi senso raccontassi, dove potessi aggiungere qualcosa”.
Che emozione è stata ricevere il Campiello? “Incredibile. Sei a Venezia al Teatro La Fenice, con la sala illuminata e gli altri quattro autori con cui hai condiviso sedici tappe in città diverse in un mese e mezzo. È stata una felicità”.
Alma, la protagonista, torna tre giorni a Trieste per ricevere l’eredità del padre, un uomo che lavorava per il maresciallo Tito. Per Alma è l’occasione per fare i conti col passato: la casa dei nonni materni punto fermo e la sua dove un giorno arrivò il coetaneo di dieci anni Vili, figlio di due intellettuali di Belgrado amici del padre caduti negli ultimi anni del governo di Tito sotto l’occhio delle purghe del governo. Vili che per Alma è “un fratello, un amico, un antagonista”.
Il passato familiare si intreccia a quello storico, la Jugoslavia e la guerra dei Balcani. “Trieste è il primo avamposto di un sogno”, dice Federica Manzon, “Le nostre storie nascono dagli incontri col diverso da noi, dal tentativo di capire cosa non capiamo”.
La madre di Alma lavora con i “matti” di Basaglia e il padre chi è? “Un uomo del mondo jugoslavo, la cui parabola corrisponde a quella della storia della Jugoslavia. Racconta alla figlia la libertà di spostarsi, perché il passaporto gli permetteva di viaggiare nei blocchi occidentale e orientale. È un padre sfuggente. Le insegna a non guardare troppo indietro, al passato, perché ti impedisce di costruirti un futuro del tutto nuovo; a portarsi quindi un bagaglio leggero, salvo poi lasciarle un’eredità che la richiama indietro, perché il libro è pieno delle contraddizioni che i personaggi attraversano”.
Qual è stato il passaggio del romanzo più difficile da scrivere? “L’assedio di Vukovar, la prima scintilla del conflitto nei Balcani. Vukovar era una città mista con delle grandi fabbriche in cui venivano per lavorare da tutta la Jugoslavia. L’ho potuta raccontare perché sono passati trent’anni, è una storia molto controversa. In quel momento gli equilibri in casa di Alma si frantumano, perché Vili manca da Belgrado da dieci anni, ma sente il richiamo della ‘sua gente’ anche se è il contrario dell’educazione ricevuta dai genitori jugoslavi e da quelli a Trieste in casa di Alma. La geografia ci determina nel nostro carattere e nelle relazioni”.
Come e quando scrive? “Mai di getto, scrivo faticosamente e ogni scusa è buona per non scrivere. Da sola, a letto, non deve esserci nessuno in casa, ci metto un po’ a entrare nella scrittura. Non mi appunto mai le idee per le storie, perché se me le dimentico non erano abbastanza forti per me. Inizio a scrivere quando si è già molto formato dentro di me un mondo, una domanda che mi interroga, in questo caso a che luogo apparteniamo e poi una domanda rispetto alle guerre. Poi nascono piano piano i personaggi, passa del tempo, inizio a scriverli, stavolta sono andata ancora più cauta, perché trattando la guerra dei Balcani volevo trovare un modo sufficientemente onesto, dato che ci sono tanti autori della ex Jugoslavia che possono raccontare la guerra in presa diretta meglio di me, per cui mi chiedevo quale fosse il punto di vista che io avessi senso raccontassi, dove potessi aggiungere qualcosa”.
Che emozione è stata ricevere il Campiello? “Incredibile. Sei a Venezia al Teatro La Fenice, con la sala illuminata e gli altri quattro autori con cui hai condiviso sedici tappe in città diverse in un mese e mezzo. È stata una felicità”.
Condividi
La funzionalità è stata disattivata perché si avvale di cookies (Maggiori informazioni)
Attiva i cookies
Attiva i cookies













