L'angolo del libro - “Oltre le parole, vicino al cuore” di Federica Minuti

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

“Il mio libro affronta tematiche utili sia per un adulto sia per un bambino, vorrei infatti coinvolgere le scuole, in particolare per il tema del bullismo”. Parole di Federica Minuti, funzionario di polizia municipale con la passione della scrittura, al Centrolibro di Scandicci per il firmacopie di  “Oltre le parole, vicino al cuore” (Edizioni Leucotea), una favola contemporanea con protagonisti un famelico ragno, due topolini di biblioteca e tre umani. “Il mio lavoro mi piace”, spiega, “ma scrivere per me è un po’ rompere lo schema, un modo per dare libero sfogo alla mia creatività”. L’autrice ha collaborato con Nati per leggere a Pisa e l’importanza della lettura è evidente nel libro. Docente in vari corsi rivolti alle categorie più fragili, Federica Minuti è da sempre attiva nel campo sociale, si è occupata di disagio giovanile, è volontaria presso la casa della Donna di Pisa e in contatto con l’associazione Artemisia di Firenze, quindi è in particolare attenta alla violenza di genere. “Violenza non solo verso le donne”, specifica, “ma anche verso bambini e uomini, fisica ma anche verbale, infatti nel libro c’è una situazione capovolta rispetto alla consuetudine, cioè c’è una donna maltrattante nei confronti dell’uomo”. Oltre alle relazioni conflittuali e alle dinamiche dell’amore tossico sono presenti anche altre tematiche nel libro, come i disturbi alimentari, l’elaborazione del lutto, l’importanza dell’ascolto e del confronto, l’amore e la fiducia in se stessi. “La mia è un’attenzione rivolta al tema della gentilezza in tutti gli ambiti”, dice Federica Minuti, il cui libro è già stato al centro di eventi di sensibilizzazione e ha ricevuto il riconoscimento da parte dell’Edicola della Legalità come “libro del presidio della gentilezza”. 

L'angolo del libro - “Il cacciatore di tornado. La terra di nessuno” di Giacomo Grazzini

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Alla Libreria Gioberti si presentano tanti libri di vario genere. Giacomo Grazzini ne ha presentato uno con un doppio titolo, “non sottotitolo” come ha tenuto a precisare, ovvero “Il cacciatore di tornado. La terra di nessuno” (fox & sparrows edizioni) in cui si intrecciano due storie. Nella saletta degli eventi, piena per l’occasione, erano con lui Rosemarie Schmidt, memoria storica e ispirazione di alcuni fatti narrati, e l’editore Amedeo Passerotti. Chi è il cacciatore di tornado? “È Michael Tempesti, un meteorologo italo-americano che vive tra il Kansas e il Missouri e dedica la sua vita alla ricerca sugli avvenimenti meteorologicamente straordinari, estremi come i tornado e la Tornado Valley è dove accadono questi eventi”. Il libro fa riferimento a un tornado in particolare? “Sì, a quello del 22 maggio 2011 che ha colpito la città di Joplin in Missouri provocando 162 morti. Questo fatto storico sarà un po’ lo spartiacque della vita del mio protagonista, cambiando il corso della sua esistenza, dato che da lì in poi si ritroverà ad affrontare una serie di eventi criminosi, da sparizioni di persone a omicidi”. Un thriller con tanti colpi di scena, ambientato non solo in America, ma anche nel Casentino mistico del santuario di La Verna, poi a Monte Senario, in Trentino Alto Adige e in Germania, Dresda e Lipsia. E qui il libro diventa anche una sorta di romanzo storico. Narra, infatti, la storia della signora seduta accanto a Giacomo, Rosemarie “per tutti Romy”, che ha vissuto la propria infanzia nella Germania nazista e tentò la via di fuga attraverso la cosiddetta terra di nessuno, cioè lo spazio che separava a quell’epoca la Germania dell’Est da quella dell’Ovest. Intorno alla storia di Rosemarie Schmidt, classe 1937, amica di famiglia da sempre, Grazzini ha costruito parte del suo romanzo. A una platea divertita e commossa, Romy racconta la sua vita, di quando da bambina fu espulsa da scuola per una sua frase contro Hitler, fino ai suoi studenti italiani a cui in tutti questi anni ha insegnato, e ancora insegna, la lingua tedesca. 

L'angolo del libro - “Settembre nero” di Sandro Veronesi

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

“È l’epopea dell’approdo all’adolescenza, quella tempesta di prime volte”. Sandro Veronesi, due volte vincitore del Premio Strega con “Caos calmo” nel 2006 e con “Il colibrì” nel 2020, presenta il suo ultimo romanzo “Settembre nero” (La nave di Teseo) alla libreria cinema Giunti Odeon con lo scrittore Antonio Franchini. “L’adolescenza”, dice Veronesi, “è quando ti rendi conto che esiste un altro mondo, che le cose succedono anche fuori dal perimetro dove sei stato protetto dai genitori, e questo mondo immenso sta dentro il tuo piccolo mondo. È quanto avviene ad Agostino di Moravia, che ho conosciuto ed è stato un adolescente curioso e innamorato per tutta la vita, o in ‘Tempi memorabili’ di Cassola o a Gigio Bellandi”. Gigio Bellandi, il protagonista del romanzo di Veronesi, è un signore di sessant’anni di Vinci che rievoca l’estate a Fiumetto, frazione di Marina di Pietrasanta, nel 1972, quando, dodicenne, scopre la musica di David Bowie, la lettura, l’amore. Ci sono anche le Olimpiadi di Monaco di Baviera e avviene il massacro compiuto dall’organizzazione terroristica palestinese “Settembre nero”, a cui rimanda il titolo del libro, contro gli atleti israeliani. “Oggi questa vicenda non avrebbe senso, non si svolgerebbe così, perché con il cellulare e i social si controlla tutto, ma allora i ragazzi potevano raccontare delle storie non verificabili. È un romanzo storico. L’ho ambientato in quel periodo non per nostalgia ma perché si distingue tutto molto meglio rispetto a ora”. A un certo punto Gigio balla con Astel, la ragazzina più grande di un anno vicina di ombrellone. “Quando Astel trascina Gigio per ballare, lo prende per le mani e lui si lascia andare, a differenza di Milton in ‘Una questione privata’ di Fenoglio, diventando quello che balla, perché se tu decidi in quel momento che non balli con la ragazza per cui ti batte il cuore stai decidendo che non ballerai per tutta la vita. Chi balla significa che la prima volta non ha detto no, anche se ha sentito la vocina che lo sconsigliava. Questo ragazzo, sollecitato dalla persona giusta che non può essere il genitore, è in grado di fare delle cose ed elevarsi dall’infanzia, alla quale sta aggrappato perché gli conviene, ma è finita e lui lo sa, quindi è in grado di compiere dei passi che lo proietteranno nell’adolescenza”. C’è una frase che rappresenta il romanzo? “Questo è un romanzo di crepe, la sua profondità la trova attraverso queste crepe da cui viene fuori qualcosa. Ci sono due versi di una canzone di Leonard Cohen, ‘Anthem’, che in italiano recitano: ‘C’è una crepa, una crepa in ogni cosa. È così che entra la luce’. Ecco, la luce di Gigio Bellandi è fosca, anche dolorosa, ma è la luce del mondo”. Il romanzo ha una prima parte molto lunga con un senso di attesa di un evento traumatico a cui si allude più di una volta. “Io ho studiato architettura, quindi il mio unico modo di concepire una struttura, anche per un romanzo, è disegnare. Io faccio un disegno all’inizio, senza la struttura non si compone. Da qualche anno alla scuola Molly Bloom di Roma tengo una lezione che si intitola i sette ottavi. Si basa su quello che secondo me è il racconto più bello e perfetto mai stato scritto ovvero “The Dead” (“I morti”) di Joyce, in cui sette ottavi vanno lentamente e parlano di un mondo, ma nell’ultimo ottavo c’è un colpo di scena ed entra l’altro mondo”. 

L'angolo del libro - “Il teatro della sorpresa” di Alessandro Benvenuti

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Ascoltano tutti con attenzione, rapiti dalle parole di Alessandro Benvenuti, per stare dietro al suo flusso di coscienza ed essere un po’ come lui, fantasiosi, profondi, divertenti. Al Teatro della Pergola si presenta “Il teatro della sorpresa” (Florence Art Edizioni) in un evento organizzato dall’editore con Fondazione Teatro della Toscana, Quartiere 1 Centro storico, Studio Giambo e Associazione Giovani Wannabe. Con Benvenuti sul palco ci sono Marco Malvaldi, autore dei romanzi del BarLume, Ugo Chiti, coautore di molte opere teatrali e cinematografiche dell’attore toscano, Enrico Zoi, autore dell’introduzione, gli editori Francesco Maria Mugnai e Silvia Tozzi. Il sottotitolo è “Scrittura e comicità per la scena”, infatti il libro contiene i testi integrali di cinque atti unici: m.m. (me medesimo), Un comico fatto di sangue, Chi è di scena, Panico ma rosa, Lieto fine e, attraverso l’intervista di Francesco Maria Mugnai, il dietro le quinte ovvero le riflessioni di Benvenuti. Fra risate e applausi procede la presentazione. Benvenuti legge un brano dedicato alla nonna, improvvisa con Ugo Chiti battute da cui si vede il percorso di vita comune, l’affetto e la stima che li lega. Poi Malvaldi prova a riportare le argomentazioni su binari più seri: “Il ridere è la manifestazione più alta di intelligenza umana. Saper fare ridere è talmente difficile e presume due cose: la capacità di capire il meccanismo attraverso cui il nostro pensiero si articola e capire con chi si sta parlando, perché non si può raccontare e ridere delle stesse cose di fronte a platee diverse, che siano studenti delle medie o si sia a teatro o in una curva allo stadio. È questa la grandissima capacità di Alessandro, una di quelle persone a cui sono grato per avermi regalato un’infanzia e un’adolescenza felice con i suoi spettacoli e film. Di lui ammiro la sua capacità di preconizzare certe cose e soprattutto di non annoiare mai, lui tiene sempre alta l’attenzione”. Ma che cosa è la scrittura per Benvenuti? Silvia Tozzi legge un brano: “È una sensazione, un formicolio, la voglia di urlare un dolore agghindandolo di risate per non farmi troppo male. Parto acceso da questa visione con il rischio di farmi bruciare sperando che via via la storia si trovi da sola. Scrittura disordinata. Tutto è già scritto dentro di te, c’è solo da frugare nel caos e mettere insieme i frammenti giusti che nel cercare trovi. Scrittura aperta a ogni possibile, auspicabile colpo di scena, l’idea salvifica arriva spesso un attimo prima di affacciarsi sul baratro. Quando il testo è pronto, si va in scena”. Parola di Alessandro Benvenuti.

L'angolo del libro - “Christmas Baking” di Csaba dalla Zorza

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Con classe e disponibilità, Csaba dalla Zorza riesce ad essere allo stesso tempo sofisticata e semplice. Alla libreria Libraccio presenta alcuni suoi libri dedicati al Natale e alla tavola delle feste, per un firmacopie allegro ma ordinato con tante signore e qualche uomo in fila. “Dicembre è un mese in cui il cibo ha il diritto e il dovere di essere  più abbondante”, esordisce Csaba dalla Zorza, “Penso che anche chi non ama il Natale ammetterà che ci sono dei profumi e delle atmosfere di questo momento che aiutano la nostra casa a vivere un po’ meglio”. “Tu credi a Babbo Natale?” chiede a una bambina. “Io sì”, dice Csaba, “ci credo perché è una cosa che mi fa stare meglio, perché la maggior parte delle letterine me le ha esaudite. Chiedere è il modo migliore per ottenere”. A vent’anni dal suo primo libro che cosa è cambiato? “Allora  era difficile fare uscire un libro di cucina. Pensavo: riuscirò a farmi amare dalle persone, a fare capire che cucinare non è una cosa che devi  fare per forza ma ti fa sentire meglio? A creare delle ricette belle nel piatto ma semplici da fare? Vent’anni dopo posso dire di esserci riuscita”. Che cosa è la cucina per lei? “Accendere il forno e impastare qualcosa mi dà un’immediata soddisfazione, perché mi libera totalmente  la testa dai pensieri e perché la condivido con gli altri. Sono l’unica di food network a non avere un aiuto cuoco, perché le mie ricette me  le cucino, faccio la spesa e lavo le mie padelle. La cucina è il mio privilegio, perché è lì che mi realizzo”. Scriverà altri libri di cucina? “Certamente sì, ne ho già in mente altri, uno magari ispirato ai miei giorni francesi, anche se non sarà di cucina ma dedicato al savoir vivre”. Fra tutti i libri scritti a quale è più legata? “È ‘Around Florence’, del 2014, perché racconta la Toscana dei miei nonni, a cui è dedicato. Lì c’è un po’ la storia della mia vita da bambina, quindi la mia iniziazione all’orto, alle galline. Mia nonna aveva un’estrazione sociale molto umile. In estate facevamo la conserva con le more. Quindi quel libro per motivi affettivi e poi è stato l’unico che ha vinto un premio internazionale importante ed è stato tradotto in un’altra lingua, in tedesco. ‘Cucina economica’ invece penso che sia il mio libro più riuscito perché scritto quando ero più matura, con ricette uscite anche in pubblicazioni precedenti, ma ragionato per non sprecare due risorse fondamentali ovvero il nostro tempo, quindi sono tutte ricette veloci, e la materia prima. Il cibo oggi è costosissimo e purtroppo non è democratico, siamo tornati a com’era cent’anni fa, solo chi può spendere mangia bene. Dobbiamo mangiare meno e meglio, perché fa bene alla salute e perché fare le cose in casa è bellissimo. Le nostre nonne erano più brave di noi, erano state educate a questo rispetto del cibo”.   

L'angolo del libro - “Il mondo a casa mia. Vita e avventure di un direttore d'albergo” di Benedetto Ferrara

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Benedetto Ferrara si toglie i panni di giornalista e si mette quelli da direttore d’albergo. Lo fa nella finzione narrativa del suo ultimo libro, “Il mondo a casa mia. Vita e avventure di un direttore d'albergo”, edito da The Dot Company e presentato alla libreria Libraccio con  Cristina Pagani, Alessandro Augier e Andrea Vendali, i tre direttori di albergo, veri, che, insieme a Marco Vensi, gli hanno raccontato le storie poi trasposte sulla pagina. “Sono storie vere amplificate da me”, dice Ferrara. “Ogni capitolo, appena finito, lo sottoponevo a loro per conferma, anche per eventuali errori sui termini alberghieri. Volevo che fossero contenti e si potessero riconoscere nel protagonista che è ognuno di loro”. L’io narrante Alberto, anziano direttore d’albergo in pensione, rivede la sua vita raccontando tredici storie ambientate quasi tutte a Firenze dagli anni Settanta ai primi Duemila. Imprevisti e situazioni spesso divertenti che il direttore  insieme al suo staff deve risolvere. “È un personaggio incredibile, un po’ attore, allenatore, psicologo, ci vuole talento per dirigere un’attività alberghiera”, spiega Ferrara, “sentendo queste storie da chi le ha vissute mi sono appassionato, perché è un mondo pieno di umanità. Mi sono divertito come un matto, ma ci sono anche storie più austere, come l’incontro con Nilde Iotti in cui lei si confida, perché a volte i personaggi pubblici non dicono niente ai giornalisti e preferiscono parlare con chi hanno conosciuto da poco”.  Ci sono anche dei clienti sportivi? “C’è un tifoso che rappresenta molto bene la città, non è un personaggio famoso, ma l’ho scelto perché racconta la fiorentinità meglio di un calciatore o un allenatore”. Ospiti musicali? “No, però in un certo senso c’è una colonna sonora, con una canzone citata che poteva essere il titolo di questo libro se tradotto in inglese ovvero People are strange dei Doors, perché la gente è strana, noi compresi”. Ci sarà una trasposizione teatrale? “Ci sono delle cose che potrebbe starci benissimo, perché no?”.

L'angolo del libro - “Puccini 100 anni. Viaggio sentimentale da Lucca al mondo” di Maurizio Sessa

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

A cento anni dalla sua scomparsa, un evento dedicato a Giacomo Puccini organizzato dalla Libreria Gioberti al cinema Sala Esse. Un pomeriggio di letteratura, musica, teatro, emozioni olfattive con tanti momenti diversi coordinati dal giornalista Alberto Andreotti. A cominciare dall’ultimo libro di Maurizio Sessa, “Puccini 100 anni. Viaggio sentimentale  da Lucca al mondo” (Edizioni Medicea). Da questo volume ricco di documenti, lettere e circa 150 immagini inedite che ripercorre l’intera vicenda biografica e musicale di Puccini sono stati letti alcuni brani dalla giornalista e scrittrice Caterina Ceccuti. Ospite d’onore il direttore d’orchestra e primo violino del Maggio Musicale Fiorentino Ladislau Petru Horvath che ha eseguito dei brani di Puccini. Beatrice Granucci  dell’Associazione I Profumi di Boboli ha presentato il Profumo “66”, come gli anni di vita di Puccini. Sono poi intervenuti Angelo Rizzone,  direttore della Libreria Gioberti, don Stefano Aspettati, direttore dell’Opera Salesiana di Firenze e Scandicci, e Antonio Palma, presidente dell’Associazione Foyer Amici della Lirica. Al termine anche una rappresentazione della Compagnia Teatrale “I Baccelloni” diretta da Pietro Bongiovì. “Puccini aveva già conosciuto il dolore per la morte del fratello in Sudamerica”, racconta Sessa, appassionato pucciniano, “ma il suo più grande dolore lo vive per Doria Manfredi, la ragazzina di 16 anni che era entrata come governante al servizio di Puccini nel 1903 quando era rimasto ferito in un incidente automobilistico rompendosi una gamba. Lei era diventata di famiglia, ma questo è un capitolo della sua vita ancora da decifrare. La moglie di Puccini, Donna Elvira, inizia a sospettare che tra la ragazza e il compositore ci sia una storia, anche se questo non è mai stato appurato. Elvira inizia allora a ingiuriarla in privato e anche in pubblico, va addirittura dal parroco di Torre del Lago per chiedergli di allontanare la ragazza dal paese”.Come va a finire? “La ragazza non regge l’urto psicologico e si avvelena”.E Puccini che cosa fa? “Scappa. La abbandona, lasciandola tra le grinfie della moglie e la ragazza, dopo cinque giorni di atroci sofferenze, muore. Io sono un biografo abbastanza impietoso, bisogna dire le cose come stanno. Da questo dramma Puccini non guarirà mai e inizierà probabilmente anche il suo distacco dalla moglie, poi si riconcilieranno, ci sarà un processo, ma da quel momento Giacomo ed Elvira vivranno da separati in casa”.

L'angolo del libro - “Se mi manchi è più bello” di Marco Bonini

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Un ribaltamento nei ruoli tradizionali della famiglia, quello proposto da Marco Bonini, attore e regista, nel suo ultimo libro “Se mi manchi  è più bello” (Ribalta Edizioni) presentato alla libreria Libraccio, all’interno del programma settimanale de “La Toscana delle Donne”, con Erika Pontini, capocronista de la Nazione, e Cristina Manetti, capo di gabinetto della Regione Toscana. Si tratta di sei storie, ambientate a Firenze, raccontate come favole della buonanotte al telefono da una madre lontana per lavoro alla figlia a casa col padre. Recita, infatti, il sottotitolo “Brevi storie per colmare la distanza”. “La mia Lucrezia”, spiega Bonini, “è un po’ un alter ego di Ulisse, ha bisogno di andare e ha un uomo, Luca, che è il mio Penelope, perché viceversa ha bisogno di restare. Per lui rimanere a casa non è un passo indietro, ma avanti, perché ha un lavoro che gli permette di dedicarsi a Marta, la loro figlia, seppure con i risultati di un principiante ovvero tanta buona volontà ma meno competenza di quella che avrebbe Lucrezia, la quale, infatti, mantiene la sua prossimità emotiva nonostante la distanza fisica”. Che cosa manca al padre? “Il modello femminile è cambiato, quello maschile ancora no, per cui dobbiamo inventarci una nuova mitologia in cui si racconta qual è il modello a cui noi possiamo riferirci come maschi, liberati da una narrazione in cui devi essere duro, non emotivo, non relazionale. Bisogna imparare a gestire il nostro mondo emozionale che ci è stato negato”.Come si immedesima un uomo nel raccontare la storia di una donna? “Le competenze professionali di un attore dovrebbero essere di dominio pubblico, perché imparare a recitare significa mettersi nei panni degli altri e questo risolverebbe molte delle problematiche sociali oggi all’ordine del giorno, tra cui la violenza di genere. Mi sono messo nei panni di una donna, di una madre, perché volevo tentare di ribaltare lo stereotipo che vuole le donne davanti all’alternativa secca o mi occupo della carriera o della famiglia”. A differenza di quanto accade in genere, il libro nasce da uno spettacolo teatrale, scritto e diretto appunto da Bonini, “La Vittoria è la balia dei vinti”  interpretato da Cristiana Capotondi, che ha debuttato l’anno scorso alla Pergola. “È andato bene”, spiega Bonini, “allora il produttore Stefano Francioni, nel frattempo diventato anche editore, mi ha proposto di farlo diventare un libro. Lo spunto me lo ha fornito Vittoria Puccini che una sera mi ha raccontato un episodio conosciuto da sua nonna ovvero che una signora aristocratica aveva allattato il figlio della sua balia, perché le era andato via il latte per la paura durante il bombardamento del ’44 a Firenze. Mi piaceva il ribaltamento sociale. Volevo raccontare una storia che parlasse di guerra ma ad una bambina, quindi con toni favolistici. Nello spettacolo Cristiana, cioè la mamma ovvero Lucrezia, dice che è martedì e tornerà a casa sabato, così ho pensato ad altri racconti per arrivare a quel giorno. La domenica no, è il racconto di Luca, marito e padre”.  

L'angolo del libro - “Delinguare cerillarius” di Enrico Zoi

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

“… quando una rosa muore non c’è spina che la trattenga. Perché siamo  come le lucciole: nelle tenebre, brilliamo”. La prosa poetica di Enrico Zoi, autore per lo più di libri su cinema e teatro e di racconti e fiabe illustrate (con il figlio Filippo), è condensata in un piccolo volume dal titolo curioso e di sicuro inedito fino a questa pubblicazione: “Delinguare cerillarius” (I libri di Mompracem). “Queste due parole non esistono”, spiega Zoi, “ma me le porto dentro da quarant’anni, da una notte d’estate in Grecia quando sognai un foglio bianco con queste due parole; mi rimasero impresse, a casa poi controllai sul dizionario, ma, pur essendo di chiara ispirazione latina, non esistono. Non significando niente erano perfette per questo libro che non è un saggio o una storia con degli intenti ben precisi, ma è il più personale di tutti quelli che ho scritto, in cui mi ci riconosco tantissimo e per questo lo definisco il più ‘zoico’ di tutti”. A Itaca, in Via San Domenico, Enrico Zoi  presenta il suo “Diario tirrenico di un sospeso sentire”, questo il sottotitolo, con Paolo Ciampi. Massimo Blaco legge dei brani e Filippo  Zoi parla delle sue illustrazioni, per la prima volta in bianco e nero.“La mia è una scrittura non per sottrazione ma per addizione, un flusso di coscienza”, dice Zoi, “sono pensieri nati nei momenti vuoti di una vacanza all’Argentario, scritti su uno smartphone, poi integrati con dei post su facebook e altri brani. In quel periodo ero sotto l’influsso delle letture, da un lato, della Recherche di Marcel Proust e, dall’altro, dei tre volumi di Enrico Ruggini dedicati a una delle più grandi esperienze medianiche della storia, il Cerchio Firenze 77”. Che cosa è l’Argentario per lei? “Il rifugio nel bosco, con la mia famiglia ci andiamo dal 1978. Un punto bello per isolarsi dal mondo, dove puoi leggere, scrivere, dormire, in una sospensione del tempo difficile da raggiungere in città”.Un libro intimo e familiare? “Non è un libro sulle memorie familiari, in parte sì, ma più che altro di memorie rivolte a un domani interrogandosi sul senso della vita”. Nel libro rende omaggio a suo padre. “L’Argentario era il suo luogo magico, penso all’oleandro piantato da lui, lì sento sempre la sua presenza, anche se è morto venticinque anni fa”.Nella foto da sinistra: Massimo Blaco, Filippo Zoi, Enrico Zoi, Paolo Ciampi

L'angolo del libro - “Meglio di niente” di Marco Vichi

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Il nuovo romanzo con protagonista il commissario Bordelli presentato in un luogo insolito e familiare, con successiva festa in piazza per l’inaugurazione di una nuova edicola. Sembra una storia di Marco Vichi, ma proprio così è andata. “Meglio di niente” (Guanda) a Itaca, in Via  San Domenico, con Paolo Ciampi a fare gli onori di casa nella sua  residenza salotto per scrittori. Il commissario è in pensione da poco  più di un mese, “ma non riesce a smettere di fare lo sbirro”, dice Vichi, “perché è quella la sua vocazione: rimettere un po’ a posto le cose, contro i soprusi, andare a vedere cosa c’è di nascosto, secondo la sua etica, nel caso fare pure qualcosa fuori dalla legge pur di rispettare la giustizia. Sta fuori dai binari, per rimettere sui binari la giustizia”. La storia è ambientata a Firenze nel maggio del 1970.  Che cos’altro si può dire? “Niente, perché anche io da lettore non voglio nessuna anticipazione. È una Firenze che non c’è più, ma a cui sono legato. Le prossime storie del commissario saranno sempre nel 1970, non andrò oltre come periodo temporale, perché gli anni Settanta non mi comunicano lo stesso fascino dei Sessanta. Come al solito il filo poliziesco si prende poco spazio, anche se attraversa tutto il libro, perché c’è tutto il resto: gli amori, le amicizie, le storie raccontate a cena, il libro di poesie di sua mamma, insomma il suo mondo, è la sua vita che racconto”. La grande curiosità umana di Bordelli lo spinge a cercare di capire perché una persona ne uccide un’altra e la sua idea di conoscenza è testimoniata anche dalle sue letture, presenti pure in questo libro. “Cito Remarque, famosissimo per ‘Niente di nuovo sul fronte occidentale’, romanzo sulla prima guerra mondiale, ma anche gli altri suoi libri sono meravigliosi, perché è capace di ogni registro ovvero la tragedia, la farsa, i sentimenti, con una continuità narrativa riservata a pochi e un’amarezza russa. Un altro autore citato è Giuseppe Dessì, vincitore del Premio Strega nel 1972 ma poi dimenticato; io nomino qua ‘Il disertore’, che parla della prima guerra mondiale ma senza le trincee. La sua scrittura è eccezionale, ti dimentichi di avere un libro in mano”. Come è cambiato, se lo è, in questi anni il suo rapporto con Bordelli? “Lo conosco sempre di più, siamo sempre più amici, mi diverto moltissimo a raccontarlo e quando comincio la prima pagina mi ritrovo subito in un’atmosfera che conosco molto bene, ma poi vedo piena di sorprese, così succedono cose che non mi aspetto, mi faccio molto guidare dalla storia”. In contemporanea con la presentazione del libro di Vichi, a pochi passi in Piazza Edison c’era l’inaugurazione, con pane grigliato, olio nuovo, vino rosso e musica dal vivo, dell’edicola libreria Periodico 11.11, che già dal nome celebra i dieci anni dall’apertura della libreria Todo Modo in Via dei Fossi, avvenuta appunto l’11 novembre 2014.Pietro Torrigiani, il titolare, spiega in che cosa si differenzierà la nuova edicola dalle altre: “Ci piacciono i luoghi che non funzionano più tanto, come le librerie e le edicole. All’interno abbiamo tolto un’infrastruttura e allargato la parte della libreria. Qui siamo in un quartiere vivace, abitato. Ci piace questa piazza come possibilità di aggregazione, quindi l’idea è di fare presentazioni, eventi, un’estate fiorentina. Al momento l’edicola è aperta dalle 7 alle 13”.

L'angolo del libro - “La casa dei silenzi” di Donato Carrisi

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

“Devo venire a ‘sciacquare i panni in Arno’, perché senza Firenze non ci sarebbe Gerber”. Al firmacopie al Libraccio Firenze un’ottantina di persone in fila ordinata aspetta il proprio turno per la dedica dello scrittore e regista Donato Carrisi sul suo ultimo libro “La casa dei silenzi” (Longanesi). Qualche parola e un sorriso per tutti, ma prima Carrisi aveva fatto un elogio di Firenze, la città dove abita il protagonista dei suoi ultimi romanzi, lo psicologo infantile Pietro Gerber. “Ormai conosco benissimo queste strade, senza Firenze non ci sarebbero queste storie che piacciono così tanto non solo agli italiani ma anche in giro per il mondo. Mi fa anche piacere essermi ripreso Firenze, perché tanti stranieri, soprattutto inglesi, ambientano a Firenze i loro romanzi, poi hanno il pudore di non pubblicarli in Italia, perché in realtà a Firenze non ci hanno mai messo piede. Noi vogliamo i viaggiatori, che non li riconosci per strada a differenza dei turisti. I viaggiatori sonoquelli che si mimetizzano, che hanno rispetto per il luogo, quindi io sono qui soprattutto per ripagare un debito, perché sono debitore nei confronti dei fiorentini e di Pietro Gerber”. Carrisi è alla quarta storia con protagonista l’ipnotista Gerber, dopo “La casa delle voci”  (2019), “La casa senza ricordi” (2021) e “La casa delle luci” (2022).  Grazie all’ipnosi, Gerber, da tutti conosciuto a Firenze come “l’addormentatore di bambini”, li aiuta a elaborare traumi e a superare paure e fobie. Ne “La casa dei silenzi” Gerber si trova alle prese con un bambino di nove anni, Matias, che ha da tempo un sogno ricorrente in cui appare una donna silenziosa e vestita di scuro. Il romanzo si svolge secondo lo stile di Carrisi, tenendo alta la tensione, in un viaggio nel subconscio con un mistero che sarà svelato solo alla fine da Gerber nella sua Firenze.“Sono passato da sotto la soffitta di Pietro Gerber in Piazza della Signoria e l’ho indicata”, dice Carrisi, “È da lì che è cominciato tutto, non so chi vi abiti, non ne ho idea, se mai faremo un film o una serie probabilmente andremo a occupare quella casa. Passare là sotto e immaginare che lassù c’è Pietro Gerber, che magari in quel momento sta ipnotizzando qualche bambino, fa un certo effetto”.

L'angolo del libro - “Balleremo la musica che suonano” di Fabio Volo

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

“Ognuno di noi ha un compito verso se stesso, cioè cercarsi, indagare su di sé”. Fabio Volo presenta il suo libro più autobiografico, “Balleremo  la musica che suonano” (Mondadori) all’Auditorium Sant’Apollonia con Carlotta Sanzogni, in collaborazione con Libraccio Firenze e Museo della Narrazione. Fabio Volo è diretto, semplice, naturalmente empatico con il pubblico accorso per lui, più di duecento persone fra i trenta e i cinquant’anni nella grande maggioranza donne, così la presentazione scorre libera e leggera, con i lettori che hanno già il libro in mano per il firma copie finale attenti a ogni parola e partecipi con le loro risate grazie all’autoironia dell’autore. Con il sorriso sulle labbra e le gambe che non stanno ferme sotto al tavolo, Volo riconosce che si sente più a suo agio nelle vesti di conduttore radiofonico, ma i suoi tredici libri, tradotti in molti paesi del mondo, dal primo “Esco a fare due passi” nel 2001 all’ultimo, parlano per lui. Se nei precedenti volumi la finzione narrativa consentiva a Volo di nascondersi dietro al protagonista, stavolta l’autore getta via ogni maschera. Il racconto inizia dalla panetteria del padre, dalle difficoltà economiche, da un contesto sociale e una famiglia in cui il destino del ragazzo di bottega, che aveva lasciato la scuola finita la terza media, sembra già segnato. “Io sarei rimasto benissimo a fare il pane, mi piaceva quella vita, non avevo un talento per uscirne”. La svolta avviene quando un giorno nel negozio del padre entra Silvano Agosti, un intellettuale regista cinematografico di Brescia che ogni tanto tornava nella sua città anche se viveva a Roma per lavoro. Agosti prende in simpatia il giovane Volo, gli regala un libro, poi un altro, “e da allora ho scoperto quella cosa  di me, leggevo tantissimo e quegli incontri sulle pagine mi hanno cambiato la vita, quelle storie e domande mi hanno permesso di indagare su di me, fino a capire che la vita che stavo vivendo non era più la vita che volevo vivere, così sono andato a inseguire qualcosa che si avvicinasse di più a me”. Quali scrittori in particolare? “Herman Hesse, Gabriel Garcia Marquez, Richard Bach, “Le ali spezzate” di Khalil Gibran, ‘La voce a te dovuta’ di Pedro Salinas, ‘Martin Eden’ di Jack London in cui mi sono riconosciuto tantissimo. Mi sentivo affine a loro e come quei personaggi sono andato alla ricerca di qualcosa che mi permettesse di avere il mio cuore a proprio agio”. Che cosa significa il titolo del libro? “Viene da una frase che diceva spesso mio padre ovvero di adattarsi a quello che sarà, mentre io da giovane avrei voluto controllare tutto”. C’è una critica come autore che l’ha disturbata in particolare? “Fin dal primo libro ho avuto una critica anche feroce nei miei confronti, ma una in particolare no. Io sinceramente quando mi sono messo a scrivere libri non pensavo di dover scendere in guerra. Non ho mai capito esattamente questo accanimento, però mi hanno fatto capire delle cose; inoltre, se non avessi avuto tutta questa attenzione, anche negativa, non avrei venduto così tanti libri”.

L'angolo del libro - “Bocca di strega” di Sacha Naspini

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

“Io non ho personaggi seriali, ma un luogo seriale, diventato un po’ il palcoscenico di tante storie”. Parole di Sacha Naspini dedicate all’amata Maremma, alla presentazione di “Bocca di strega” (Edizioni E/O) all’Ippodromo del Visarno con la giornalista Francesca Tofanari e i librai indipendenti di Firenze Books ovvero le librerie Leggermente, Alfani, Florida, Farollo e Falpalà. Una Maremma diversa da quella narrata in altri libri da Naspini: “Una Maremma di mare, questa storia si sviluppa tra Piombino, Baratti, poi sulla Tuscia e si vola addirittura in California”. Siamo nei primi anni Settanta e il tema è quello del grande traffico dei reperti  etruschi da parte dei tombaroli, già affrontato dall’autore ne “Le nostre assenze”, “l’unico romanzo autobiografico che rimanda al periodo dell’ultima infanzia e prima adolescenza. Prima dell’istituzione del TPC, Tutela del Patrimonio Culturale, era un mercato selvaggio. Fino agli anni Sessanta i ragazzini giocavano con i bronzetti etruschi e le anfore che trovavano”. Come nasce “Bocca di strega”? “È un po’ il resoconto di circa un anno di interviste con un trafficante tombarolo. Negli archivi dei giornali trovavo delle corrispondenze. Mi affascinava come era partito questo traffico, per i soldi ma anche per una sorta di dipendenza alla ricerca di quel momento specifico in cui rompi una tomba e dopo tremila anni sei il primo a rimetterci i piedi dentro. In particolare una scena che mi raccontò fu per me folgorante: l’episodio di quattro tombaroli rimasti chiusi di notte in una tomba millenaria, sotterrati vivi, al buio, che poi è diventata una scena perno del romanzo”.Quel senso di soffocamento, claustrofobico, presente in altri romanzi  è un tuo tratto distintivo. Perché? “I luoghi chiusi, piccini, stretti sono una strategia narrativa stimolante, di tanto in tanto c’è questo gioco di gabbie”. Chi erano i tombaroli? “Personaggi come dei pirati di terra con una doppia vita e nomi di battaglia, di giorno con un mestiere e di notte per le tombe. Lo scavo nell’entroterra è un po’ come scavare dentro di te e cercare la tua nuova vita”. Il personaggio principale è Bardo, all’anagrafe Guido Sacchetti. Chi è? “Lui intuisce la potenzialità di quei reperti, distribuisce questi piccoli tesori nella comunità di Populonia creandosi una rete di protezione e comincia a viaggiare nella Tuscia, ma ‘Bocca di strega’ è come un romanzo corale con tanti personaggi. Il primo capitolo racconta il ristorante ‘La conchiglia’, dove si ritrovano di notte per fare il punto della situazione. Ogni capitolo è in terza persona, con la telecamera su un personaggio diverso”. Biondo, Leagro, Alarico, il Marchese, sono alcuni dei compagni di avventura di Bardo, che ha un figlio, Giovanni, detto Veleno, che prenderà il suo posto. “È ammaliato dal suo babbo come personaggio avventuroso. Gli insegna a individuare le tombe, come si scavano, e lui vuole mostrare al padre che anche lui ci sa fare”. L’espressione ‘bocca di strega’ che cosa significa? “L’ho inventata io, però è ispirata a un fatto avvenuto a Populonia forse cento anni fa, quando in un vecchio cimitero medievale fu ritrovato uno scheletro di donna sepolta con sette chiodi in bocca. Nel mondo dei miei tombaroli è la trappola per scoprire il traditore che si è venduto. Ci sono tante bocche di strega o forse è il romanzo stesso la bocca di strega generale per le ambiguità dei personaggi”.

L'angolo del libro - “Alma” di Federica Manzon

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

“Se i libri hanno un senso, se la letteratura può fare qualcosa, è anche accendere delle luci su dei luoghi, su degli angoli del mondo”. Federica  Manzon, vincitrice della sessantaduesima edizione del Premio Campiello,  presenta “Alma” (Feltrinelli) con la giornalista Laura Montanari al Gabinetto Vieusseux nell’ambito della rassegna letteraria Intemporanea. Alma, la protagonista, torna tre giorni a Trieste per ricevere l’eredità del padre, un uomo che lavorava per il maresciallo Tito. Per Alma è l’occasione per fare i conti col passato: la casa dei nonni materni punto fermo e la sua dove un giorno arrivò il coetaneo di dieci anni Vili, figlio di due intellettuali di Belgrado amici del padre caduti negli ultimi anni del governo di Tito sotto l’occhio delle purghe del governo. Vili che per Alma è “un fratello, un amico, un antagonista”. Il passato familiare si intreccia a quello storico, la Jugoslavia e la guerra dei Balcani. “Trieste è il primo avamposto di un sogno”, dice Federica Manzon, “Le nostre storie nascono dagli incontri col diverso da noi, dal tentativo di capire cosa non capiamo”. La madre di Alma lavora con i “matti” di Basaglia e il padre chi è? “Un uomo del mondo jugoslavo, la cui parabola corrisponde a quella della storia della Jugoslavia. Racconta alla figlia la libertà di spostarsi, perché il passaporto gli permetteva di viaggiare nei blocchi occidentale e orientale. È un padre sfuggente. Le insegna a non guardare troppo indietro, al passato, perché ti impedisce di costruirti un futuro del tutto nuovo; a portarsi quindi un bagaglio leggero, salvo poi lasciarle un’eredità che la richiama indietro, perché il libro è pieno delle contraddizioni che i personaggi attraversano”. Qual è stato il passaggio del romanzo più difficile da scrivere? “L’assedio di Vukovar, la prima scintilla del conflitto nei Balcani. Vukovar era una città mista con delle grandi fabbriche in cui venivano per lavorare da tutta la Jugoslavia. L’ho potuta raccontare perché sono passati trent’anni, è una storia molto controversa. In quel momento gli equilibri in casa di Alma si frantumano, perché Vili manca da Belgrado da dieci anni, ma sente il richiamo della ‘sua gente’ anche se è il contrario dell’educazione ricevuta dai genitori jugoslavi e da quelli a Trieste in casa di Alma. La geografia ci determina nel nostro carattere e nelle relazioni”. Come e quando scrive? “Mai di getto, scrivo faticosamente e ogni scusa è buona per non scrivere. Da sola, a letto, non deve esserci nessuno in casa, ci metto un po’ a entrare nella scrittura. Non mi appunto mai le idee per le storie, perché se me le dimentico non erano abbastanza forti per me. Inizio a scrivere quando si è già molto formato dentro di me un mondo, una domanda che mi interroga, in questo caso a che luogo apparteniamo e poi una domanda rispetto alle guerre. Poi nascono piano piano i personaggi, passa del tempo, inizio a scriverli, stavolta sono andata ancora più cauta, perché trattando la guerra dei Balcani volevo trovare un modo sufficientemente onesto, dato che ci sono tanti autori della ex Jugoslavia che possono raccontare la guerra in presa diretta meglio di me, per cui mi chiedevo quale fosse il punto di vista che io avessi senso raccontassi, dove potessi aggiungere qualcosa”. Che emozione è stata ricevere il Campiello? “Incredibile. Sei a Venezia al Teatro La Fenice, con la sala illuminata e gli altri quattro autori con cui hai condiviso sedici tappe in città diverse in un mese e mezzo. È stata una felicità”.

L'angolo del libro - “Racconti brevi” di Marco Vichi e Giancarlo Caligaris

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Da alcuni anni ogni domenica su “La Nazione” esce un racconto di Marco Vichi accompagnato dalle illustrazioni di Giancarlo Caligaris. Tra i centosessanta racconti, alcuni in più puntate, usciti settimanalmente, Vichi ne ha scelti diciassette per il libro “Racconti brevi” (Magdalena Edizioni) presentato al Bar Garden Tre con Caligaris, l’editore Massimo Costantini, Maurizio Leopardi di Giorgi Libri e la Libreria La Gioberti.La coppia di autore e illustratore ha dato vita a un volume in cui i disegni hanno dignità pari ai testi, non sono dei riempitivi ma una creazione con una storia a sé, un’altra possibilità di narrazione.“La narrativa sul quotidiano mi piace tantissimo e ha una lunga tradizione”, spiega Vichi. “Come diceva Cechov, quando punti su qualcosa di breve devi avere una direzione verso la commedia o la tragedia”. Come nascono le storie? “Passo la mia vita stando attento a quello che ascolto, ad esempio al tavolo accanto al mio. Magari da un dialogo o da una piccola scena vista per la strada o da una frase o da un sogno nasce una storia. Prendo tutto quello che è narrabile cercando di costruirci un racconto e giocando molto sulla scrittura, con quale tono, punto di vista, atmosfera. È un allenamento eccezionale. A volte possono essere delle storie che non riescono a entrare in un romanzo”. Come funziona il  lavoro con Caligaris? “Lui legge il racconto e non so cosa farà, lo scopro solo quando è pubblicato sul giornale. Deve tirare fuori un’immagine che non sveli nulla, ma sia dentro l’atmosfera di quel racconto. Con Caligaris ci siamo conosciuti trent’anni fa, sono sue le copertine dei miei romanzi su Guanda per cui tra di noi c’è una certa intesa”.Caligaris non ha tanta voglia di parlare, ma è naturalmente d’accordo  quando Vichi elogia l’editore: “Di solito non si pubblicano questi libri, perché sono complicati, costano, invece lui ha avuto il coraggio di usare le illustrazioni, che a volte sono dei bozzetti come tra l’altro per la copertina”. Che cosa è la narrativa? “Raccontare tirandosi dietro la psicologia, l’azione, le emozioni, i sentimenti dei personaggi. Cerco sempre di evitare che il mestiere superi la passione della scrittura; anche le storie più semplici e leggere cerco di raccontarle con parole e sguardi in cui credo, con onestà e sincerità. La sensazione è che la storia si sviluppi davanti ai miei occhi e io sia lo scrivano che cerca di inseguirla con le parole. Scrivere è un magnifico disturbo”.  Il prossimo Bordelli esce il 5 novembre.Nella foto dalla sinistra l'editore Massimo Costantini e Marco Vichi

L'angolo del libro - “I film belli li danno solo di notte” di Lorenzo Zucchi

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Un thriller horror con protagonisti degli adolescenti. Alla Libreria  Salvemini Lorenzo Zucchi presenta “I film belli li danno solo di notte” (Edizioni Underground?). Lo accompagna nell’esposizione del suo libro Stefano Burbi, compositore musicista e direttore d’orchestra stavolta nella veste di relatore. I personaggi del romanzo, ambientato vent’anni fa, hanno tra i 19 e i 23 anni e vivono nella ricca realtà della provincia di Parma, “che conosco bene, mi sono ispirato alle famiglie di quella zona”, dice l’autore. Erano compagni di gioco da bambini in estate, ma crescendo si sono allontanati. Ogni tanto si incontrano ancora, ma la compagnia non c’è più. Tutti hanno subito un trauma e il più grande di loro, soprannominato Acqua, si è suicidato. È solo uno dei soprannomi.La scelta dell’autore è dovuta al tentativo di cristallizzare in tal  modo il ricordo del passato oppure è indicativa di una ricerca della  propria identità tipica di quell’età? “Entrambi i motivi: i soprannomi proteggono il loro passato e rivelano la loro ricerca di un’identità. Con i nomi propri, inoltre, il messaggio sarebbe passato meno rispetto al soprannome che simboleggia ogni persona. Ad esempio Cemento è quello con i piedi più piantati nella realtà, Scivolo passa da un’idea all’altra, Cybo è diventata l’opposto perché quasi anoressica, Erba è dipendente dalla cannabis, Nuvola è quello rimasto più bambino”. Con il pretesto che una di loro, Panda, finito il semestre Erasmus, sta tornando da Dublino, Scivolo ha l’idea di riunire tutti gli amici per una festa, perché ha la villa a disposizione essendo i genitori via: “Scivolo è la più giovane del gruppo e vuole dare ancora una chance alla loro amicizia”.Il tema dell’adolescenza si lega al ruolo dei genitori, fondamentale in quell’età così delicata: “L’assenza o la presenza sbagliata dei genitori non aiuta i ragazzi. La mia critica non è certo della famiglia come istituzione, ma i personaggi più problematici sono quelli con una madre single che gioca solo a carte o con un padre troppo presente che vuole decidere tutto per il figlio o con i genitori in giro con la barca o quello cresciuto con la nonna. Non è semplice passare da ragazzi all’età adulta. Tutti sono alla ricerca di un’identità e ognuno a modo suo la troverà”. La maschera che porta con sé a ogni presentazione del  libro che cosa rappresenta? “È il simbolo del libro. La maschera divisa a metà rappresenta il bipolarismo”.Nella foto da sinistra a destra: Lorenzo Zucchi e Stefano Burbi

L'angolo del libro - “Muoio per te” di Riccardo Nencini

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

A cento anni dal delitto Matteotti, i misteri da chiarire restano tanti. A cominciare dal mandante: fu il tesoriere del partito fascista Marinelli, come hanno scritto De Felice e poi Scurati, oppure l’ordine giunse, come sempre avveniva in quegli anni, dall’alto ovvero da Mussolini?Riccardo Nencini propende per la seconda ipotesi nel suo ultimo romanzo, “Muoio per te” (Mondadori), presentato al Sina Hotel Villa Medici in un evento organizzato dal Rotary Club Firenze Nord con il Presidente Carlo Corbinelli e la giornalista Elisabetta Failla. Autore di diversi libri, Nencini aveva già dedicato un romanzo, “Solo”, uscito nel 2021, a Matteotti. La figura lo appassiona perché “atipica, in lui c’è una vena di follia consapevole. È un benestante, ma alla fine sposa la causa dei disperati polesani che erano i più poveri d’Italia. Il padre era un presta denaro a usura; dei sette figli la madre ne perde sei, rimane solo lui, è l’unico che può riscattare l’onore della famiglia e ci riesce”. Matteotti è il primo vero nemico di Mussolini, uno dei primi a intuire che il fascismo nel dna ha la violenza. Nencini aveva inizialmente  in testa un altro tipo di libro: “Avevo già scritto 110 pagine, ma poi ho letto le lettere d’amore di Antonio Gramsci a Giulia Schucht, allora ho buttato via tutto e riscritto daccapo. Quel libro aveva già un titolo e un visto di Mondadori, ma è scomparso per fare posto a questo, perché nella storia non si possono omettere le donne”. In “Muoio per te” le vicende politiche che vanno dal 10 giugno del 1924, giorno del  rapimento di Matteotti, agli inizi del 1925 si intrecciano a quelle private, con quattro figure femminili fondamentali per i loro uomini. Oltre alla citata Giulia, c’è Velia, la quale scrive al marito Giacomo Matteotti: “Non ti è più concessa nessuna viltà, dovesse costarti la  vita”. Intenso il rapporto anche tra Anna Kuliscioff e Filippo Turati. Celebri coppie della politica di quegli anni, come Mussolini e l’amante  Margherita Sarfatti. Lei lo educa al galateo, “gli costruisce una dimensione da buoni salotti, perché, anche se era il direttore dell’Avanti e vendeva 110mila copie, bestemmiava e non sapeva usare le posate”.Ne scrive l’agiografia, “illeggibile perché gli inventa i natali nobili, esagerata ma geniale, perché la scrive in inglese, vende un milione e mezzo di copie, tradotta poi in venti lingue”. Alla Sarfatti il duce  confessa le sue paure al telefono, non sapendo di essere intercettato dal De Bono, capo della polizia. Proprio le intercettazioni, anche con il fratello Arnaldo, insieme alle lettere private e ai telegrammi con gli ambasciatori italiani a Mosca, Parigi e Londra costituiscono il materiale inedito del libro.Da sinistra a destra nella foto: Carlo Corbinelli, Elisabetta Failla, Riccardo Nencini

L'angolo del libro - “Quei fantastici viaggi nel tempo con i grandi protagonisti della storia” di Marcello Lazzerini

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Un evento in ricordo di Marcello Lazzerini, il giornalista scrittore fiorentino scomparso lo scorso 9 luglio. A Villa Vittoria Cultura il  figlio Luca presenta il libro del padre, “Quei fantastici viaggi nel  tempo con i grandi protagonisti della storia” (Edizioni Udom) insieme a Fabio Baronti della Compagnia delle Seggiole, a Giovanni Fittante, al Presidente della Regione Eugenio Giani, all’editore Aldo Avvenuti, all’Assessore alla Cultura del Comune di Firenze Giovanni Bettarini, al presidente di Firenze Fiera Lorenzo Becattini. Ognuno ha un ricordo di  Marcello, di cui traspare la generosità, l’umanità e la capacità di ascolto. E l’entusiasmo di chi guarda sempre avanti, nonostante gli 86 anni compiuti, dato che del libro presentato era già in progetto il secondo volume che uscirà, postumo, nel 2025. Nei suoi “fantastici viaggi” Lazzerini, attraverso dialoghi e interviste immaginarie, traccia la storia di grandi personaggi come Galileo Galilei, del quale coglie il rapporto con la figlia Suor Maria Celeste, o Carlo Lorenzini, l’autore di Pinocchio, che usò lo pseudonimo di Collodi in quanto luogo di nascita della madre. Tanti ritratti, come quello di Monna Lisa, del Boccaccio, di Amerigo Vespucci, di Silvano “Nano” Campeggi e di Gino  Bartali, per la cui biografia nel 1993 vinse il Premio Bancarella dello Sport. Si tratta per la maggior parte di testi teatrali poi messi in  scena dalla Compagnia delle Seggiole nell’arco di dodici anni di collaborazione, “per lui come una seconda famiglia”, dice Luca Lazzerini.“Mio padre metteva tutto se stesso in quello che faceva e in questo libro dimostra la sua capacità di tratteggiare i personaggi più disparati della storia in una maniera rigorosa e originale, dall’aspetto pubblico a quello privato, che si trattasse di Galileo o della storia della lingua italiana o della lirica”. “È stato il primo giornalista del Tg3 a entrare nei salotti dei toscani”, ricorda Baronti, “aveva una grande visibilità. Come autore ascoltava le esigenze degli attori. Per la Compagnia delle Seggiole ha scritto trentacinque testi, sia radiofonici sia di viaggi teatrali, di cui, inedito, un dialogo impossibile tra Virgilio e Dante Alighieri. Attraverso gli aneddoti ci faceva scoprire parti di storia apparentemente minore ma che a me facevano commuovere, come, nello spettacolo di Bartali, la testimonianza di un signore di Reggello, deportato in un campo di concentramento, salvato da un kapo tedesco, insieme ad altre quindici persone, perché teneva in tasca una fotografia di Gino Bartali”.

L'angolo del libro - “Il nonno racconta Firenze” di Luciano e Ricciardo Artusi

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Luciano Artusi presenta il suo ultimo libro, il centoduesimo per la precisione, scritto insieme al figlio Ricciardo, a Villa Vittoria e lo fa con la cultura, la disponibilità, l’entusiasmo, il piglio del ragazzino che lo contraddistingue da sempre. “Il nonno racconta Firenze”, il titolo dell’ultima fatica letteraria (Edizioni Udom) fa riferimento ai 92 anni di Luciano e vien voglia di chiedergli, oltre alle pubblicazioni su Firenze, una sull’arte della longevità. I due autori, padre e figlio, parlano del libro con il padrone di casa Giovanni Fittante e l’editore Aldo Avvenuti. La sala è piena e le domande sono tante, ma Luciano ha una risposta per tutti. Il libro è rivolto a un pubblico più giovane, della scuola dell’obbligo, così è composto da molti racconti al massimo di tre pagine, di vari argomenti per creare aspettativa e curiosità, per fare conoscere ai ragazzi la storia di Firenze. “Questo libro non è  la storia di Firenze, ma tante storie”, specifica Artusi, “Abbiamo cercato di renderlo più agevole possibile, una lettura facile, comprensibile, affinché la lettura di ogni capitolo invogli a verificare, vedere realmente quanto letto”. Non è vero che su Firenze sia già stato scritto  e detto tutto: “Se si prende un argomento singolo e si va alle fonti giuste degli archivi si scoprono tante cose curiose, che sono quelle che rimangono impresse e ci fanno apprezzare maggiormente il monumento o il palazzo o il ponte, perché sappiamo un aneddoto avvenuto in quel posto”. La ricerca di Luciano Artusi negli archivi è iniziata quando  aveva appena vent’anni: “Dal 1952 frequento gli archivi di Firenze, li conosco un po’ tutti e nei nostri libri raccontiamo sempre qualcosa di nuovo, perché ci sono quelle curiosità che si trovano nelle carte ingiallite degli archivi. Le scoperte si fanno sempre per caso, si va a cercare una cosa e se ne trova un’altra”. Per esempio? “Di recente nell’archivio del Capitolo del Duomo abbiamo scoperto tante curiosità come le gattaiole nel Duomo, da un verbale dei canonici del 1800. Nelle due sacrestie del Duomo, infatti, alla base ci sono due gattaiole, perché la notte aprivano ai gatti essendoci i topi: il Brunelleschi aveva pensato anche a questo! Sono stato in Duomo chissà quante volte, ma non me ne ero mai accorto; letto questo, sono subito andato a verificare e ho constatato che, sì, ci sono due gattaiole”. Nel libro ci sono storie particolari, come quella dell’uomo della forchetta. Chi era? “Nell’Ottocento successe un fatto strano. Dei giovanotti a tavola si raccontavano un episodio avvenuto a teatro, dove un prestigiatore si era messo in gola un coltello e poi una piccola sciabola. Ne parlavano e uno di loro, per dimostrare che era vero, si mise dall’alto una forchetta in bocca, ma gli scivolò e finì in gola. Con la forchetta nell’esofago, il ragazzo allora andò all’Ospedale di San Giovanni di Dio. Era un giovane tappezziere di trent’anni e provarono in tutte le maniere a estrarla, ma la forchetta andava sempre più giù. Neppure le purghe furono di aiuto. Ha campato ventidue anni in questa maniera, perciò veniva da tutti chiamato l’uomo della forchetta. Fino a quando venne ricoverato per una colica sempre a San Giovanni di Dio e il professore, lo stesso che lo aveva visitato la prima volta, lo operò, ma non ci fu niente da fare. L’uomo morì, ma la forchetta, se volete vederla, è al piccolo Museo di San Giovanni di Dio”.

L'angolo del libro - “L’alternativa Montagna” di Niccolò Rinaldi

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Un manuale dedicato all’amata montagna. A Villa Vittoria, Niccolò Rinaldi presenta “L’alternativa Montagna” (I Libri di Mompracem) con Giovanni Fittante, coordinatore del progetto culturale e presidente di Villa Vittoria Cultura, la giornalista e studiosa di geostrategia Elena Tempestini, Paolo Ciampi e l’alpinista Giusy Vergara. Viaggiatore alpinista, Rinaldi, che è stato eurodeputato e animatore dell’Intergruppo Montagna del Parlamento Europeo, scrive spesso di alpinismo e con questa pubblicazione fa un elogio della montagna per più motivi. “Ho scritto vari libri di viaggio ed era inevitabile che la montagna”, dice l’autore, “che è un fatto geografico, fisico, spirituale ma anche culturale diventasse un piccolo volume, compendio di riflessioni.Alcuni elementi combinati insieme creano la montagna: il senso di  assoluto e di pulizia, la dimensione della verticalità, questa voglia insita in tutti di salire e vedere le cose dall’alto, perché aumenti la tua percezione”. Come si legge nella quarta di copertina “le giornate e le notti di alpinismo ad alta quota sono una sfida alla razionalità, una presunzione smoderata e al tempo stesso un atto di umiltà; dal primo passo, ci sentiamo minimi al cospetto della grandiosità, della lunghezza, della difficoltà del cammino, della meteorologia e delle sue improvvise virate, delle rocce. Questi sforzi sono ricchi di un fermento rigenerante per la vita a valle: si tempra la volontà, si relativizzano altri eventi, si misurano le capacità del corpo e della volontà, si tiene lontana la tentazione della pigrizia”. Il percorso fatto è, innanzitutto, quello con se stessi, in una lunga e silenziosa conversazione interiore che ti porta a delle scelte. “È un percorso formativo in un apparente silenzio, perché ci sono il vento, il fruscio degli alberi o il rumore degli animali; è una diversa sonorità che noi consideriamo silenzio rispetto al trambusto cittadino, ma non lo è. C’è una sorta di ascesi personale in questo essere costantemente presenti a se stessi, in questo sforzo dell’attenzione, essere responsabili per fare capire da dove si può passare, se prendere quella strada oppure no, nel saper leggere i segni lasciati prima di noi, nella capacità di orientamento e di comprensione del cambio della meteorologia, insomma tutti i sensi sono allertati; si pensa e si prendono decisioni piccole o grandi. La montagna è un chiavistello  che apre quello che hai dentro”. La montagna attrae e respinge allo stesso tempo: “Ti chiama, ha questi picchi come meta da raggiungere, ma l’ambiente all’alta quota non è fatto per noi uomini, non ci possiamo vivere”. La montagna è vicina: “anche a Monte Morello o nel bosco di Serpiolle ne sentiamo gli odori e le esperienze, i misteri e le scoperte, il pericolo e il senso di straniamento”. In montagna aumenta l’autostima, perché impariamo a contare sulle nostre forze: “fai un percorso e ne sei contento, anche quella piccola esperienza è profonda, intima e significativa”.Ma la montagna non è immune dai mali del nostro tempo, il malcostume e il degrado. Ci si impara, però, l’educazione all’ambiente e rimane, così, una forma di salvezza, “alternativa” alle alienazioni delle pianure.(Nella foto da sinistra a destra: Elena Tempestini, Giusy Vergara, Niccolò Rinaldi, Giovanni Fittante, Paolo Ciampi)

L'angolo del libro - “Affetti non desiderati” di Elena Rui

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

“Per me il racconto è un’acrobazia, una piroetta”, dice Elena Rui, al Giardino delle Rose alla presentazione del suo “Affetti non desiderati” (Arkadia Editore) con Paolo Codazzi e Massimiliano Scudeletti, in un evento a cura dell’associazione Febbre e Lancia in collaborazione con “I libri di Mompracem”.“Nel racconto bisogna cadere in piedi”, spiega l’autrice, “che il cerchio si chiuda e si ritorni al punto di partenza, insomma ci sia una vera conclusione, qualcosa che lascia il lettore interdetto, stupito o con delle domande. È questo il mio intento”.“Affetti non desiderati” contiene nove racconti ambientati ai nostri giorni tra Parigi, dove vive l’autrice, e Padova, la sua città natale, ma ci sono anche dei non luoghi come gli hotel, “forse per costringere i personaggi in un ambiente chiuso e vedere le loro reazioni”. Il  titolo del libro rimanda con un gioco di parole agli “effetti indesiderati” che si leggono nei bugiardini ed era il titolo originario, poi tramutato in “Affetti non desiderati”. Ma quali sono? “I racconti parlano di rapporti di amicizia, amorosi, passionali, familiari, complicati come nella vita di ciascuno di noi e quindi non desiderati in questo senso”.Prove da superare, scatti di ira, compromessi, rancori taciuti e poi esplosi, in relazioni difficili per più motivi: l’età, le condizioni sociali ed economiche, il sentimento non ricambiato o che va a diminuire.Nella forma breve dei suoi racconti Elena Rui disegna dei personaggi in cui ogni lettore può riconoscersi, per la vastità e universalità di ciò che viene raccontato ovvero l’amore nella sua quotidiana diversità.“Mi interessa guardare la complessità del reale senza prendere posizione”, dice l’autrice, “scrivere è soprattutto uno sguardo su ciò che ci circonda”. Che cosa è per lei la scrittura? “Per me scrivere è faticoso, perché si è soli con se stessi, non si sa se quello che si sta scrivendo va bene e lo si può sapere solo dopo averlo riletto e corretto a distanza di tempo. La parte più divertente della scrittura sono i dialoghi, mi piacciono molto, perché da questi si deducono molte cose”.  

L'angolo del libro - “In cammino con Matilde” di Paolo Ciampi

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Nei libri di storia a scuola è conosciuta per un episodio, ma è molto di più di quello, Matilde di Canossa. Paolo Ciampi prova a renderle giustizia. Lo fa a modo suo, mettendosi in cammino nei luoghi che le appartennero, sui sentieri dell’Emilia e della Toscana tra pievi, castelli, ostelli che ancora testimoniano la grandezza e la modernità di colei che fu detta “Signora d’Europa” e sconfisse l’Imperatore Enrico IV, ascoltandone i passi, dedicandole il libro “In cammino con Matilde” (Mursia). Ciampi lo presenta nello scenario suggestivo del Giardino delle Rose con Paola Facchina, in un evento a cura dell’associazione Febbre e Lancia in collaborazione con “I libri di Mompracem”. L’episodio famoso per cui è da tutti citata, quello con il Papa e l’Imperatore, viene chiamato il perdono o l’umiliazione di Canossa; di certo lei era la padrona del castello e, altrettanto sicuro, dice Ciampi, è che “la storia a volte l’hanno fatta le donne, ma l’hanno  raccontata gli uomini. Questo libro, non da storico, dimostra come si possano avere vari punti di vista, che a volte non ci aiutano ad avvicinarci alla verità, come nel caso di Matilde, sminuita e dimenticata.È un libro sul piacere del viaggio lento che ci permette di porci le giuste domande e avere qualche risposta. È la storia di una donna che ci ha dato molto”. In un periodo come il Medioevo lei capovolge il prestabilito ruolo della donna subalterna all’uomo. Eppure, nonostante i suoi domini dall’Adriatico al Tirreno, dal lago di Garda alla Tuscia, su di lei pare calato il silenzio.“È una donna straordinaria la Marchesa di Tuscia, padrona della pianura padana, signora del Po, dominatrice incontrastata di tutti i valichi appenninici; la consigliera più stretta di uno dei Papi più importanti della storia, nel mezzo della lotta per le investiture tra il potere della Chiesa e dell’Impero. Ed è intrigante perché quasi tutto quello che ha fatto non lo avrebbe voluto fare;infatti lei incarna l’esempio di donna attiva nella società della Firenze medievale, quando il suo nome veniva dato a molte bambine, ma in realtà Matilde avrebbe preferito una vita contemplativa ritirandosi in un monastero, solo che il Papa non glielo permise, dandole responsabilitàdi governo”. Ciampi cammina con Matilde e con il lettore, percorrendo un tratto della via matildica in saliscendi collinari di realtà abitate e bei borghi, nel territorio del Lambrusco e del Parmigiano, al proprio passo, “perché le gambe ci aiutino a entrare nelle vite delle persone che ci hanno preceduto. Il cammino è una palestra di attenzione, con un senso di liberazione da tanti pensieri”.

L'angolo del libro - “Dovevo ucciderti” di Andrea Improta

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Un altro caso per il Commissario Manfredi. A due anni di distanza da “Il rifrullo del diavolo”, Andrea Improta pubblica la seconda storia con il suo protagonista: “Dovevo ucciderti” (Incipit23). Presenta il libro al Conventino Caffè Letterario con Paola Gradi e, a un certo punto, non c’è più una sedia libera. Varie persone stanno in piedi, ad ascoltare le parole di Improta e l’accompagnamento musicale del Meissa Duo ovvero le bravissime sassofoniste Alda Dalle Lucche e Giulia Fidenti. È una presentazione riuscita, perché ci sono partecipazione, spontaneità, divertimento. Anche se i temi del libro non sono affatto divertenti.A cominciare dall’inizio, con una donna, Sara, che scappa dal marito violento, Sandro, il quale viene ritrovato cadavere sulla riva dell’Arno. Chi lo ha ucciso? Il Commissario Marco Manfredi indaga sul presente e sul passato dei personaggi, tra cui la carismatica Federica, spostandosi tra Firenze e Napoli in una storia ambientata ai nostri giorni. Incontra strozzini e ludopatici, “perché il genere giallo”, dice Improta, “ha questo di bello: ci puoi mettere di tutto, dal rapporto d’amore più bello al femminicidio, a ogni altro tema difficile. Ingiusto definirlo, come spesso accade, letteratura di serie B”. Un tipo di romanzo in cui la figura dell’investigatore è naturalmente centrale. “Il commissario Manfredi ha qualcosa di mio: gli piacciono il vino, i gatti che sono esseri speciali, è molto sensibile alle donne, ipocondriaco”. Manfredi vive, infatti, con il gatto Buk e la compagna Alice e, rispetto al primo romanzo, si vede l’evoluzione dei personaggi. Particolare la tecnica  narrativa scelta dall’autore; ogni capitolo, infatti, è scritto in prima persona secondo il punto di vista di un personaggio diverso, quindi cambia il linguaggio. “Non è semplice”, spiega Improta, “in particolare per il giallo, perché parla anche l’assassino ma chiaramente non può dire che lo è, quindi bisogna descrivere lo scorrere degli eventi secondo i vari punti di vista senza svelare il mistero che c’è sotto. Questo è uno stile diffuso, a me è venuta l’idea dopo avere letto una scrittrice spagnola di gialli che scrive con questa tecnica: Lorena Franco”.

L'angolo del libro - “Borgo Ottomila” di Leonardo Gori

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Una storia in testa da tempo, da ambientare nel luogo giusto. Trovato quello, il resto è venuto da sé. Al Libraccio, Leonardo Gori racconta il suo ultimo libro, accennando il minimo indispensabile alla trama, perché c’è un mistero da svelare e bisogna stare bene attenti a quello che si dice per non togliere il gusto della lettura. Nella sua esposizione lo accompagnano l’amico Marco Vichi, autore delle storie del commissario Bordelli ma non solo, e la giornalista de La Nazione Olga Mugnaini.Il titolo del libro, dunque: “Borgo Ottomila” (Guanda). Sembra un nome di fantasia, ma non lo è. Esiste davvero un Borgo Ottomila, è una frazione nel comune di Celano in Abruzzo. Uno di quei posti che nascono dal prosciugamento di un lago, un altrove dove rifugiarsi se si è in fuga. Come nel caso di Anna, una delle tre donne protagoniste del romanzo. Scappa dal marito violento e torna nel paesino dell’infanzia, dove ritrova Marta, la migliore amica di allora. E dove le raggiungerà la vicequestore Laura Novembre che, insieme al sovrintendente Stefano Alfieri, sta indagando su un misterioso omicidio. “Ho scoperto questo non luogo su internet, non ci sono mai stato a Borgo Ottomila perché non volevo farmi condizionare nel mio racconto”, spiega Gori e aggiunge come questo romanzo sia diverso dai suoi precedenti con protagonista Bruno Arcieri per più motivi. “Faccio tabula rasa di quanto scritto finora, perché stavolta non c’è la storia con la s maiuscola a intrecciarsi con le storie dei personaggi. Inoltre è ambientata ai giorni nostri, anche se con frequenti flashback agli anni Ottanta. Poi c’è una coppia di investigatori, per me la novità più complicata. Infine è una storia con tre personaggi femminili, in cui mi sono identificato per vedere la storia attraverso di loro”. Un noir pieno di suspence, tanto da essere paragonabile, secondo Vichi, a “Psycho” con il conseguente augurio di trovare un produttore e un regista alla Hitchcock per farci un film. I personaggi  sono più importanti della trama, la quale “è necessaria, regge il romanzo”, dice Gori, “ma può cambiare anche radicalmente durante il racconto, basta mantenersi coerenti senza cadere in contraddizioni”.E i nostalgici di Arcieri? “A gennaio dovrebbe uscire una nuova storia, ambientata nel 1946, nei giorni a cavallo del referendum istituzionale del 2 giugno tra monarchia e repubblica”.

L'angolo del libro - “Un goal per l’inclusione sociale” di UPD Isolotto. A cura di Gino Fantechi Materni

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Gol! Per condividere l’abbraccio dei compagni. Per fare parte della  stessa squadra. Da più di otto anni la UPD Isolotto porta avanti il progetto “Uniti per un Sogno”, una splendida realtà per un calcio inclusivo che vuole unire, divertire, fare crescere e migliorare ragazzi e ragazze con disabilità intellettiva e relazionale. Da questa esperienza è nato il libro “Un goal per l’inclusione sociale” (Edizioni Genius Loci), presentato alla BiblioteCaNova Isolotto dal curatore del volume Gino Fantechi Materni insieme al Presidente del Q4 Mirko Dormentoni e a Marco Burgassi. Fantechi è il vicepresidente Isolotto che ha creduto subito nella fattibilità di questa idea, nata dalla richiesta di un bambino al padre: “Voglio fare calcio”. Damiano ha la sindrome di down e la passione per il pallone, ma non è facile trovare un posto dove giocare. Pino Moscato, il padre, si rivolge alle istituzioni e la consigliera comunale Barbara Felleca trova la società giusta all’Isolotto dove, due anni dopo, si giunge alla creazione di una struttura composta da  uno staff di professionisti, psicologi, terapisti di neuro e psicomotricità, allenatori, tutti quasi volontari con rimborsi che a volte non coprono neppure le spese. Nella stagione conclusa erano venticinque ragazzi con un’età dai dieci ai trent’anni ad allenarsi due pomeriggi alla settimana con lo stesso abbigliamento e tesseramento Figc insieme ai coetanei normodotati della scuola calcio e giovanile, a girare in modo che tutti possano fare questa esperienza formativa reciprocamente. “Il nostro intento è mostrare un modo possibile di creare inclusione tramite lo sport che è un mezzo eccezionale e universale a prescindere dal calcio”, spiega Gino Fantechi Materni, “perché qualcosa si può fare, davvero, seriamente”. La dimostrazione è nell’abbraccio collettivo di calciatori, allenatori, formatori, dirigenti, familiari, tutti a fare parte della stessa famiglia all’Isolotto calcio. Negli anni l’attività svolta di calcio integrato, che offre a tutti i ragazzi le stesse opportunità, ha ricevuto vari riconoscimenti, anche europei. È il fiore all’occhiello di questa società sportiva e viene raccontata in questo libro che fa capire le problematiche e le soluzioni. In appendice si spiega come il ruolo del gioco incida nella crescita dei ragazzi. “Sono migliorati nella loro autonomia, si aiutano tra loro”, dice Fantechi e già pensa a nuove iniziative per la prossima stagione.

L'angolo del libro - “Do you remember? La nostra Firenze negli anni ’70 e ’80” di Massimo Pieri e Marco Ciappelli

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

C’è un’isola a Firenze, in Via San Domenico, sulla strada che porta a  Fiesole. Si chiama Itaca. Lì si presentano libri, si legge, si discute,  si condivide. Il padrone di casa è Paolo Ciampi, scrittore, camminatore  e giornalista. “Itaca è una casa aperta a ospitare chi vuole attraccare  a questo porto, a questa isola allo stesso tempo reale e immaginaria  per condividere parole e storie”, dice Ciampi. “L’isola dà il senso di un ambiente protetto, dove si può essere più sicuri, più noi stessi. Abbiamo bisogno di isole nella nostra società dove siamo sempre presi dalla fretta e dagli impegni. Itaca è il risultato di tre c a cui tengo molto: cultura, creatività e convivialità. Le tre c portano alla quarta  c, di casa, perché era la casa dei miei, una casa privata e che lo rimane,  ma quando apro il cancello diventa aperta a tutti”. Tra i libri presentati  nella biblioteca ricca di volumi, “Do you remember? La nostra Firenze negli anni ’70 e ’80” (I Libri di Mompracem) di Massimo Pieri e Marco Ciappelli. Un omaggio a una città che non c’è più, in un periodo indimenticabile per chi lo ha vissuto, come gli autori, e per chi ha portato la propria testimonianza: il terzo scudetto viola sfiorato, le radio libere, il look, i cocktail, la cucina, il ricordo del gettone per telefonare dalla cabina alla fidanzata col terrore che ti rispondesseil padre, le feste in casa con la speranza di incontrare una ragazza come Sophie Marceau nel “Tempo delle mele” per ballarci un lento a debita distanza ma con il cuore che batteva forte. “Erano gli anni delle compagnie, ritrovi di gruppo fra ragazzi e ragazze in ogni parte della città”, dice Pieri. “Abbiamo raccolto testimonianze, aneddoti, fotografie e adesivi. Avevamo il Ciao, le vespine. C’erano tanti locali dove si andava a ballare con la massima serenità. Sono felice di avere vissuto una certa epoca sotto tutti i punti di vista, per i primi lavori e i soldi – la lira - in tasca. Noi socializzavamo stando fuori, insieme,a parlare, non attaccati ai telefonini come i ragazzi di oggi. La gente era diversa. La politica era diversa. Ci si aiutava, questa è una parola oggi scomparsa”.

L'angolo del libro - “La mia creatura” di Silena Santoni

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Conosciamo tutti la storia di Frankenstein, la creatura nata dall’assemblaggio  di varie parti di cadaveri, ma che cosa sappiamo di Mary Shelley, l’autrice di questo capolavoro scritto più di duecento anni fa? Tra  verità e finzione, personaggi storici e una coppia di albergatori  inventati, Silena Santoni ne “La mia creatura” (Giunti Editore), presentato al Centrolibro di Scandicci con Olimpia Cogliano, prende spunto dai primi ventiquattro anni di Mary Shelley, fino a quando appunto rimane vedova del marito Percy, per narrare ciò che la coinvolge di più. “Mi era stato chiesto di scrivere una biografia romanzata ma poi è diventata un romanzo gotico”, dice Silena Santoni, “della tensione verso l’infinito, sul desiderio e il tentativo di superare la morte”. Quanta vita, e quanta morte, nella biografia di Mary Shelley. A soli dieci giorni dalla nascita, sua madre muore per complicazioni dopo il parto. Mary sentirà sempre la  mancanza della figura materna, ma soprattutto avvertirà un senso di colpa sentendosene in qualche modo responsabile. Avverte anche le forti  aspettative nei suoi confronti perché figlia di due intellettuali, William Godwin e Mary Wollstonecraft. A sedici anni si innamora di Percy Shelley. Lui era già sposato con figli, ma scappa dalle responsabilità familiari per stare con lei. Si tratta di “un amore tossico perché lui rifiuta ogni  convenzione, in particolare la fedeltà. Mary avrà cinque gravidanze, ma  vivrà solo un figlio”. Il momento centrale della storia narrata da Silena Santoni è nel 1816 a Villa Diodati sul lago di Ginevra, dove Mary con Percy, la sorellastra Clare e il bambino appena nato vanno a trovare  Lord Byron. Passano il tempo a fumare, bere, drogarsi, ma soprattutto  a parlare di storie dell’orrore in cimiteri, letteratura in voga in quegli  anni, fino a quando Lord Byron lancia una sfida. Chi tra loro scriverà un racconto di paura? In quel contesto nacquero “Il vampiro” dalla penna  di John Polidori, segretario di Lord Byron, e soprattutto “Frankenstein” scritto da Mary a soli diciannove anni. “Fin dall’inizio fu un grande successo”, dice Silena Santoni, “ma Frankenstein non è un mostro, ma il nome di chi lo ha creato, quindi chi è più mostro la creatura o il creatore, lo scienziato Frankenstein? Lui vuole superare i limiti imposti all’uomo, ma viene fuori una creatura mostruosa, così scappa lasciandola al suo destino. Questa creatura è come un neonato, non sa niente della vita e del mondo. Chiede amore, ma tutti lo evitano per il suo aspetto”. Mary esorcizza i suoi sensi di colpa e i suoi lutti nel romanzo, “dà una forma ai mostri dentro di sé, ha il coraggio di affrontarli trovando così l’immortalità con la scrittura”.

L'angolo del libro - “ Sulla cresta dell’onda. Gastone Nencini e quel 1960” di Giovanni Nencini

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Il Leone del Mugello. Lo chiamavano così, Gastone Nencini, spericolato e coraggioso, uno dei più grandi discesisti di sempre. Una settimana fa il Tour de France è partito da Firenze e il pensiero va a chi l’ha vinta quella corsa, a chi ha tagliato il traguardo finale con la maglia gialla addosso. Solo due campioni toscani ci sono riusciti, Gino Bartali nel 1938 e nel ’48 e, appunto, Gastone Nencini nel 1960. Un anno speciale, quello, come racconta Giovanni Nencini, uno dei quattro figli, nato proprio pochi mesi dopo la vittoria del Tour, nel suo libro “Sulla cresta dell’onda” (Sarnus Editore), presentato con Marco Pasquini in Piazza Santa Maria Novella nell’ambito della terza edizione de “Le  Piazze dei Libri”, evento organizzato da Confartigianato Imprese Firenze con cinque serate in otto piazze sparse tra tutti i quartieri cittadini e il coinvolgimento di tredici librerie. Il sottotitolo recita: “Gastone Nencini e quel 1960”. “Quell’anno è stato straordinario per mio padre non soltanto per la vittoria al Tour de France e il secondo posto al Giro d’Italia sfuggito per soli 29 secondi”, spiega Giovanni Nencini, “ma anche fondamentale dal punto di vista privato perché conobbe l’amore della sua vita, la mamma, e proprio in virtù di questo molto probabilmente ebbe quei grandi successi sportivi”. Il libro dunque si sviluppa su due binari, da un lato il Tour e dall’altro una grande storia d’amore, tra l’altro “molto controversa e difficile in quegli anni perché il babbo era sposato con un’altra donna e la mamma con un altro uomo”. In un dialogo immaginario tra un giovane giornalista e un anziano cronista si raccontano gli sforzi e le difficoltà di quel Tour, mentre viene ricostruita parallelamente la storia d’amore con Maria Pia, anche attraverso le lettere di Gastone dalla Francia. Ne esce fuori il ritratto inedito di un campione, raffigurato anche nella sua vita privata. In un’epoca poi in cui, con l’avvento degli sponsor, il ciclismo passava dall’“eroico” ai tempi moderni. Un libro particolare, che solo un figlio poteva scrivere dedicandolo al padre.

L'angolo del libro - “Bartali. La grande Storia” di Marcello Lazzerini

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Pedala ancora, Gino Bartali, nella memoria di tutti e in particolare nel cuore di chi lo ha conosciuto. Ancora di più oggi, giorno della partenza da Firenze del Tour de France. Gino lo ha vinto due volte, a dieci anni di distanza l’uno dall’altro, nel 1938 e nel ’48. Bartali, insieme a Gastone Nencini nel ‘60, sono i due soli campioni toscani ad avere vinto la corsa francese. Bartali rivive nelle pagine dei libri, come in quello di Marcello Lazzerini, “Bartali la grande storia” (Udom Edizioni), presentato presso il Club Anima Viola. All’evento condotto dal Presidente dell’Associazione Stampa Toscana Sandro Bennucci, insieme all’autore del volume sono intervenuti la nipote di Gino, Lisa  Bartali che ne ha scritto l’introduzione, l’editore Surat Sunonkun, la Presidente del Viola Club Claudia Giusti e l’ex ciclista Giuliano Passignani, presidente delle Glorie del Ciclismo Toscano. Fabio Baronti e Chiara Macinai della Compagnia delle Seggiole hanno emozionato il pubblico, attento e partecipe, leggendo alcune pagine dedicate a Coppi, Bobet, Anquetil e De Gasperi. Questo volume è la nuova versione del libro “La leggenda di Bartali” (Ponte alle Grazie), Premio Bancarella  Sport nel 1993. Le interviste riproposte non risentono del tempo, trasmettono ancora l’unicità di un uomo diventato personaggio non solo sportivo. “Gino aveva stabilito con me un rapporto di fiducia”, ricorda Lazzerini, “durante i nostri viaggi in macchina mi raccontava gli episodi della sua vita che io trascrivevo. Lui parlava e io la volta successiva gli portavo il testo scritto da leggere. Dovevano, infatti, uscire i fascicoli di questa storia e avevamo delle scadenze da rispettare”.Ma chi è stato Gino Bartali? “Un personaggio straordinario. Ho capito di trovarmi di fronte a un grande italiano, figura esemplare non solo di sportivo, un eroe quasi mitologico per il suo modo di affrontare le difficoltà e la montagna”. Da ventiquattro anni Bartali non c’è più, ma la sua memoria vive attraverso tante iniziative, come il tema di maturità nel 2019 o l’uscita di libri come questo, in cui “il nonno Gino si racconta”, dice Lisa. Vita privata, imprese, aneddoti, la morte del fratello Giulio, il suo percorso come carmelitano laico, la sua vita dopo quella da atleta, qualche accenno al salvataggio degli ebrei con le missioni segrete in bicicletta fino ad Assisi e Roma nascondendo carte di identità contraffatte nel telaio della bici; vicende poi approfondite dagli studiosi molto più tardi, fino al riconoscimento nel 2013 del suo contributo da parte dell’ente Yad Vashem che lo ha proclamato “Giusto tra le Nazioni”. “Gino non ne voleva parlare”, dice Lazzerini, “ma quando lesse le pagine del libro non corresse una virgola, perché quelle azioni erano narrate senza grancassa, senza vanto, quasi sorvolando, senza farle pesare”.

L'angolo del libro - “Tra oceano e stelle” di Claudio Galluzzo

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

“Amerigo Vespucci ha vissuto due vite, mi piaceva raccontare questa verità biografica e ho provato umilmente a farlo”. Andrea Claudio  Galluzzo presenta “Tra oceano e stelle” (Mauro Pagliai editore), con Marco Crisci, in Piazza Santa Maria Novella nell’ambito della terza edizione de “Le Piazze dei Libri”, evento organizzato da Confartigianato Imprese Firenze con cinque serate in otto piazze sparse tra tutti i  quartieri cittadini e il coinvolgimento di tredici librerie tra indipendenti  e catene. Non è un libro di storia. La vita di Amerigo Vespucci viene  narrata in prima persona da Galluzzo: “è una finta autobiografia, faccio finta di essere Vespucci che racconta al nipote Giovanni la propria vita”. L’idea del libro venne a Galluzzo nel 2012, in occasione del cinquecentenario della morte di Vespucci avvenuta a Siviglia. In quel periodo Galluzzo coordinava un’opera con i “Fiorentini nel mondo” per un tributo al Vespucci mercante. Aveva letto una ventina di biografie e, all’ultima, iniziò a scrivere a mano le memorie di Vespucci in prima persona. Il racconto inizia dalla casa di campagna, in via di Peretola numero 6, dove la famiglia aveva un podere e Amerigo teneva i conti allo zio. Sdraiato sul tetto di casa, Amerigo copia le costellazioni su un foglio; siamo agli inizi della navigazione astronomica, ma lui i calcoli li fece giusti, a differenza di Cristoforo Colombo. Poi gli studi presso il monastero di San Marco, l’attività commerciale e quella di banchiere per la famiglia Medici. Quindi i primi viaggi nelle Indie Occidentali, le grandi scoperte, fornendo per primo notizie di quel continente che prenderà il suo nome: “questo fiorentino va messo accanto ai grandi uomini del suo tempo”, afferma Galluzzo, “non tanto perché ha dato il nome all’America, ma perché aveva quella qualità altissima che pochi fiorentini hanno avuto”. Vespucci è una figura umana molto interessante: “ha avuto il coraggio, da iperbenestante qual era, di dire basta, lasciare i posti già visti per andare nel Nuovo Mondo, che nella seconda metà del Quattrocento era quello che percorreva le coste occidentali dell’Africa e cominciava ad avventurarsi in aperto oceano. Siviglia era la Dubai di oggi”, dice Galluzzo, che da alcuni anni ha lasciato la sua Firenze per vivere negli Emirati Arabi e spostarsi di continuo tra Cina e America.Una vita per certi versi simile a quella di Vespucci del quale, in modo forse naturale, Galluzzo ha scritto un diario immaginario. “Vespucci decide di cambiare vita: quanti nella sua epoca lo hanno fatto, hanno avuto il coraggio di farlo? Pochissimi”.

L'angolo del libro - “Oltre” di Gigi Paoli

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Lasciare un personaggio di successo, per crearne un altro dello stesso spessore se non maggiore, è sempre un rischio, per qualsiasi narratore. Ma Gigi Paoli ci è riuscito. Lasciato momentaneamente dopo cinque storie il suo alter ego Carlo Alberto Marchi, giornalista di cronaca giudiziaria a Firenze nel Palazzo di Giustizia da lui ribattezzato “Gotham”, il professor Piero Montecchi ne ha preso il posto, nelle pagine di Paoli e nell’attenzione dei suoi lettori. Così la loro attesa per la nuova uscita editoriale, quasi annuale, è rimasta, forse aumentata. Piacevole abitudine di seguaci affezionati. In tanti erano alla libreria cinema  Giunti Odeon alla prima presentazione di “Oltre” (Giunti Editore), secondo romanzo con protagonista il prof. Montecchi, neuroscienziato italo-francese consulente del Cicap, il Comitato per il controllo delle affermazioni sul paranormale. Sul palco Paoli dialoga con Gabriele  Canè, editorialista di QN, e racconta come è nato il suo nuovo personaggio: “Me lo chiese una sera il mio mentore Antonio Franchini, direttore editoriale dell’area narrativa e saggistica della Giunti. Dopo tre giorni gli presentai il professor Montecchi. Avevo preso spunto dalla mia serie tv preferita, X-Files, per creare un personaggio che ha fede nella scienza e dà la caccia alla pseudoscienza”. Scelta azzeccata, visto il successo de “La voce del buio” uscito l’anno scorso. “Sono affezionato a Piero Montecchi, perché ha il nome di mio padre e perché è un uomo molto combattuto, crede nella scienza anche se questa non gli ha salvato la moglie malata di cancro”. Alla Giunti Odeon Paoli giocava in casa, per l’editore e perché è il luogo dove ha scritto il suo libro. In copertina l’immagine del cubo di Metatron, “il simbolo più importante della geometria, rappresenta la chiave conosciuta della natura e dell’universo”.L’inizio rientra nei tipici canoni del giallo, con il misterioso doppio omicidio di due premi Nobel per la fisica uccisi nello stesso momento e modalità, ma a distanza di mille chilometri; delitti molto simili a un altro di vent’anni prima. Montecchi è affiancato da una poliziotta a capo dell’Udi, Unità delitti insoluti. Ma “Oltre” si sottrae alle  etichette di genere: “Non è solo un giallo o un noir. Ci sono il confine tra etica umana e scienza, l’abuso dell’intelligenza artificiale, la questione dei migranti”. Prima di scrivere, Paoli svolge un accurato lavoro di ricerca: “Fondamentale vedere quello che racconti. È vero tutto quello che ho scritto, solo alcune cose le ho anticipate nel senso che gli stessi scienziati affermano saranno realtà dal 2045”. E Marchi  che cosa sta facendo? “È in cassa integrazione o in vacanza, ma tornerà. Forse un giorno i miei due protagonisti si incontreranno in una storia a Firenze. Chissà”.

L'angolo del libro - “Tiziano Terzani mi disse” di Jacopo Storni

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Alla scoperta delle radici di un grande giornalista scrittore viaggiatore. Nel ventennale della sua morte, è uscito il libro Tiziano Terzani mi disse (Ediciclo Editore) di Jacopo Storni, con la prefazione di Angela Terzani Staude, la moglie. Lo hanno presentato al Teatro Cantiere Florida in una serata evento da tutto esaurito, condotta da Martina Castagnoli della libreria On the Road, con Fabio Terzani, il cugino, e Massimo Mangialavori, il medico omeopata che l’ha accompagnato nella fase finale della sua vita. Sebbene la fama di Terzani sia legata ai suoi oltre trent’anni in Asia, dovunque andasse nel mondo quando gli chiedevano di dove fosse lui rispondeva che era fiorentino, aggiungendo “di Monticelli”. Il viaggio a ritroso di Storni parte da Malmantile, borgo degli avi di Tiziano, poi Via Pisana al numero 147, luogo natale e lo ricorda una targa lì apposta, quindi Pisa alla Normale dove scelse Giurisprudenza, Vinci per il matrimonio con Angela, la basilica di San Miniato al Monte rifugio di quiete spirituale dopo l’11 settembre, infine Orsigna dove ha scelto di “lasciare il suo corpo”. Storni intervista i vicini di casa, i compagni di scuola, gli amici storici. Ogni aneddoto rivela un lato che definisce e aiuta a costruire la personalità di Terzani: “Veniva da un quartiere popolare”, racconta Storni, “cresciuto in una povertà estrema, andava con la mamma al Monte dei Pegni a dare le lenzuola in cambio di soldi. Viveva in una casa di due stanze e nella stessa camera dormiva con il babbo, la mamma e poi la nonna quando gli morì il marito. Portava i pantaloni comprati a rate. La domenica in centro guardava i ricchi mangiare il gelato che lui non poteva permettersi. Ha sofferto episodi di bullismo. Tutto ciò lo ha segnato profondamente. Da qui nasce la sua voglia di riscatto e di fuga da questa realtà limitata”.La scelta di stare dalla parte degli ultimi. “Se da reporter si è occupato dei poveri, dei dimenticati, dei senza voce, degli oppressi, io credo che lo abbia fatto perché si sentiva come loro e lui prendeva sempre parte nei suoi articoli, non era imparziale”. Terzani ispiratore per tanti, anche per lo stesso Storni: “per me è un punto di riferimento, un maestro professionale e di vita, se oggi faccio il giornalista buona parte del merito è sua e anch’io tento di raccontare gli ultimi. I giovani devono conoscere Terzani, le sue frasi sono eterne”. “Tutti i giorni Tiziano si alzava ed era felice, entusiasta”, lo ricorda Angela, “È sempre stato partecipe della sorte di quelli trattati ingiustamente. Guardava sempre lontano”.

L'angolo del libro - “Gaza, Odio e amore per Israele” di Gad Lerner

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

“Sono convinto che si arriverà a una convivenza tra ebrei e palestinesi, riconoscendo gli uni il trauma degli altri, la Shoah e la Naqba”. Alla Libreria Feltrinelli in Piazza della Repubblica, Gad Lerner presenta il suo ultimo libro Gaza, Odio e amore per Israele (Feltrinelli) e lancia un messaggio di speranza per questa vicenda secolare. Solo posti in piedi, tra il pubblico presente anche l’Imam di Firenze Izzedin Elzir nato a Hebron. Merito della popolarità del giornalista ma soprattutto del tema.Con Gad Lerner dialoga il prof. Franco Cardini, il quale si chiede quante identità abbia l’autore, nato a Beirut da una famiglia ebraica e a soli tre anni trasferitosi con la famiglia a Milano: “in questo libro densissimo la pluralità attiva e positiva di molte identità si sente continuamente e lo porta a essere compartecipe degli altri”. Un libro  scritto in tre mesi ma “dietro ci sono cinquant’anni di memorie ed esperienze”, spiega Lerner, “Noi siamo la generazione venuta al mondo dopo lo sterminio delle nostre famiglie, i sopravvissuti che abbiamo visto nello Stato di Israele un caposaldo”. Come è potuto accadere il 7 ottobre 2023? In quel fazzoletto di terra si stava svolgendo una grande festa giovanile a poca distanza dalla Striscia di Gaza, che assomiglia a un campo di concentramento. Se lo chiede Lerner nella quarta di copertina: “Si può vivere in paradiso sapendo di avere l’inferno accanto?” Le milizie di Hamas “come nei videogiochi: i deltaplani meccanici oltrepassano la  barriera che doveva essere dotata di radar sensibilissimi, i bulldozer la sfondano, tutto nel giro di due o tre ore, uno spartiacque nella storia. Erdogan li ha chiamati partigiani ma ha infangato il senso della resistenza perché i partigiani non hanno mai fatto strage di civili”. La reazione del governo Netanyahu ha scatenato una sanguinosa offensiva militare sugli abitanti di Gaza, screditando però la reputazione di Israele. “Io  solidarizzo con le sofferenze del popolo di Gaza e di Cisgiordania, non da oggi ma da quando sono giovane cerco relazioni in quel mondo. A Firenze nei primi anni Settanta Alexander Langer mi incoraggiava dicendomi ‘tu sai l’ebraico allora vai laggiù a incontrare le pantere nere israeliane e i sindaci della Cisgiordania, organizziamo dei meeting’”. In copertina il guerriero ebreo Sansone abbatte le colonne del palazzo dei filistei ovvero i palestinesi, come nel celebre episodio della Bibbia al grido ‘muori Sansone con tutti i filistei!’, a Gaza, che nelle lingue semitiche significava “feroce, forte” ed è ora un simbolo oltre che un luogo: “nella cronaca drammatica di questi otto mesi seguiti al 7 ottobre rivedo la tragedia di Sansone e dei filistei. Oggi la gioventù, e non potrebbe essere diversamente, sta dalla parte di chi viene massacrato. Io oggi a una manifestazione per la pace non ci posso andare perché tra i vecchi magari c’è chi mi abbraccia ma tra i giovani c’è chi mi griderebbe dietro in arabo allora perché devo stare lì a provocare con la mia presenza?” Nel libro è riportato un lungo dialogo del 1984 con Primo  Levi, a due anni dalla guerra in Libano, in cui l’intervistato “sentiva forte il senso di imbarazzo e di colpa a criticare Israele ma diceva: ‘Israele ha bisogno di questa nostra amorevole critica’ ed io lo trovo attualissimo. Primo Levi ci ha insegnato a manifestare pubblicamente i dubbi che gli ebrei italiani in larga misura hanno nei confronti delle scellerate condotte del governo israeliano. Perché siete così numerosi a questo incontro? Perché tutti avvertiamo che questa guerra locale èperò mondiale, rischia di diventare la guerra dei poveri contro i ricchi, dei senza diritti contro i garantiti, degli orientali contro gli occidentali, e peggio ancora la guerra dei musulmani contro la civiltà giudaico cristiana, che secondo me non esiste. Questa sarebbe una spirale che la trascinerebbe a diventare una guerra mondiale”.

L'angolo del libro - “Gli incantatori” di James Ellroy

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

James Ellroy viene accolto alla libreria cinema Giunti Odeon come una  rockstar e lui non tradisce le attese urlando uno yeah liberatorio,  personificando così in un certo senso la sua scrittura. Ospite de La città dei lettori, progetto culturale a cura di Fondazione CR Firenze e Associazione Wimbledon APS con la direzione di Gabriele Ametrano, Ellroy presenta il suo ultimo romanzo, Gli incantatori (Einaudi). Dopo un omaggio a Maurizio Pollini, “il più grande pianista del mondo” scomparso poco tempo fa, Ellroy legge il primo capitolo, tradotto all’istante da Simona Caldera, quindi stende una gamba sul tavolo e risponde alle domande di Gianni Santucci del “Corriere della Sera”.INTERVISTA A JAMES ELLROYSi sente un po’ come Freddy Otash, il suo protagonista? “La creazione è in parte autobiografica, però io non sono mai stato così cattivo come lui anche se abbiamo delle cose in comune”. Quali? “Fin da ragazzo sono sempre stato molto curioso di sapere che cosa succedeva nelle vite degli altri, i dettagli. Crescendo, mi sono interessato ai crimini, alle indagini, al chi ha fatto cosa, chi sarà ritenuto colpevole, qual è la psicopatologia del criminale, giustizia sarà fatta? Antonioni con Blow-up mi ha fatto capire come io avrei guardato questo mondo pieno di bugie”. Il maestro del noir ha 76 anni e parla chiaro. “Sono cresciuto a Los Angeles dopo la seconda guerra mondiale e il mio papà era la persona più scurrile che abbia mai conosciuto”. Ellroy rivisita la storia americana a modo suo, tra finzione e realtà, personaggi inventati e veri, nel contesto criminale della trama. Stavolta il punto di inizio è una calda notte d’agosto del 1962 quando a Los Angeles viene ritrovato il cadavere di Marilyn Monroe. La storia reale si intreccia alla finzione, la sparizione di una giovane attrice rapita. Delle indagini si occuperà il detective Freddy Otash. “Cerco di dare nei miei romanzi la mia versione senza filtri e un po’ selvaggia, verosimile della verità. In relazione alla morte di Marilyn Monroe i dati medici sono ambigui così ho avuto molto spazio per romanzare questo evento”. Chi sono gli incantatori? “Negli anni Sessanta la gente cercava l’incanto, un particolare modo di vita; la prima a pronunciare quella parola è l’insegnante di recitazione diMarilyn”. E se Gli incantatori diventasse un film? “L.A. Confidential e Dalia Nera le hanno trasformate in schifezze”. La scrittrice Joyce Carol Oates la definì “il Dostoevskij americano”. Che ne pensa? “Mi fa sembrare di alto livello ma ... Non mi interessa la letteratura minimalista, sociale, realista, le tragedie americane, Faulkner non l’ho mai letto, Hemingway lo trovo noioso. Leggo solo storie noir ed è appunto quello che scrivo”.

L'angolo del libro - “Il cielo dei temerari” di Roberto Baldini

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Il cielo sopra Firenze, l’ebbrezza del volo. Saletta piena alla Libreria  Gioberti per il libro di Roberto Baldini, Il cielo dei temerari. Firenze,  la musa del volo nel segno di Leonardo (Edizioni Medicea), presentato da Elisabetta Failla e Carlo Scarzanella con il Generale di Brigata Aerea Giovanni Francesco Adamo, Comandante dell’Istituto di Scienze Militari Aeronautiche, e Vittorio Argento, già vice direttore Rai Gr1. Il libro nasce da motivi familiari e professionali: “La passione per il volo mi è stata trasmessa dal mio babbo Carlo che non c’è più, così a diciassette anni decisi di prendere il brevetto di pilota. Per la cronaca de La Nazione di Firenze mi occupavo poi dell’aeroporto, impazzivo dietro ai possibili allungamenti o accorciamenti della pista così mi venne l’idea di ricavarne un libro facendo delle ricerche indietro nel tempo”. Questo libro ricco di foto è la riedizione aggiornata di un volume uscito nel 1993 con lo stesso editore, ma in questi trent’anni lo sviluppo dell’aeroporto di Peretola non c’è stato, coi “progetti approvati e non portati avanti”.Le scrupolose ricerche di Baldini nell’archivio storico dell’Aeronautica Militare, nelle antiche cronache de La Nazione e nelle biblioteche lo hanno riportato fino a Leonardo da Vinci, “il primo a dare una base scientifica al sogno dell’uomo di volare, studi sfruttati solo secoli dopo. Affascina leggere le sue riflessioni sul volo degli uccelli, le sue intuizioni”. Fino al leggendario esperimento sul Monte Ceceri in quel di Fiesole con Zoroastro da Peretola, “il primo uomo che forse sperimentò la macchina di Leonardo atterrando malamente e fracassandosi una gamba: sarà stata solo una leggenda? Perché Leonardo non provò lui stesso la macchina? Forse Zoroastro gliela prese di nascosto?” Da Leonardo ai pionieri del Campo di Marte si succedono le storie, come quella di Vasco Magrini, pilota nella prima guerra mondiale e poi primo istruttore di volo a Firenze, morto in un incidente aereo. Vasco e le sue pazzie: “Come quella del ponte quando lui, letto di un aviatore americano passato sotto un ponte dell’Hudson, un giorno che era in volo con il suo biplano, con dietro di lui il vecchio giornalista fiorentino Alberto Decia, passò sotto Ponte alla Vittoria, non indenne perché sfiorò dei renaioli e impattò contro un cavo, ma riuscì ad atterrare sulla riva dell’Arno”. Una sezione del libro è dedicata alle donne, alla prima pilota di linea Fiorenza De Bernardi. Insomma Baldini, com’è volare? “Una sensazione meravigliosa e difficile da descrivere, ci ho provato nel libro e spero di esserci riuscito”.

L'angolo del libro - “Strage al Masso delle Fate” di Nicola Coccia

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

11 giugno 1944 al Poggio alla Malva, Comune di Carmignano. Otto partigiani, quasi tutti sui ventiquattro anni tranne uno con moglie e figli, fanno esplodere un treno merci carico di 160 tonnellate di tritolo, appena uscito dalla fabbrica Nobel (che si trovava di fronte all’enorme pietra detta Masso delle Fate), che sarebbe servito ai tedeschi per minare ponti e strade, distruggere case, rallentare l’avanzata degli alleati.Da questo episodio quasi dimenticato della Resistenza in Toscana si sviluppa il libro di Nicola Coccia, “Strage al Masso delle Fate” (Edizioni ETS), presentato alla Sms di Peretola con Massimiliano Scudeletti. Per un problema con l’innesco della seconda miccia quattro di quei giovani morirono: i fratelli Bogardo e Alighiero Buricchi, Ariodante Naldi e Bruno Spinelli. Si salvarono gli altri: Lido Sardi, Ruffo del Guerra, Mario Banci e il pittore Enzo Faraoni. Proprio quest’ultimo racconterà all’autore del volume quanto accaduto durante quello che fu “il maggior attacco partigiano dell’Italia centrale”. “Ho conosciuto Faraoni nel 1997 e l’ho seguito fino alla morte nel 2017”, spiega Coccia, “l’avrò intervistato una ventina di volte e da lui sono passato a rintracciare i protagonisti o i parenti. Ho parlato con tanta gente in quindici anni finché non ho trovato all’Archivio centrale di Stato un documento dove si dice dove era diretto il carico di esplosivo e questo mi ha spinto a renderlo pubblico, per mettere un punto a una vicenda poco conosciuta”. I superstiti di quell’azione partigiana si rifugiarono nella casa di Ottone Rosai insieme ad altri gappisti tra cui Bruno Fanciullacci. Rosai volontario nella prima guerra mondiale, fondatore con altri dodici artisti nel 1919 del fascio di combattimento fiorentino, in un’occasione salvò Mussolini da un attentato ma non partecipò alla marcia su Roma né indossò mai la divisa fascista. “Ecco Rosai insieme alla moglie dando rifugio ai partigiani rischiava la vita tutti i giorni”, dice Coccia. Nel libro si parla così del gruppo di artisti impegnati nella Resistenza, di una Firenze viva e in lotta dal 1933 al 1944, del famigerato Mario Carità torturatore di Villa Triste e di Pietro Koch, di seminaristi e vescovi, di tante altre storie significative riportate alla luce grazie al lavoro di Coccia. Il libro verrà presentato oggi alle 17 al Salone del Libro di Torino.

L'angolo del libro - “Avevo un fuoco dentro” di Tea Ranno

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Il dovere di raccontare una malattia. Questa la motivazione dell’ultimo libro di Tea Ranno, Avevo un fuoco dentro (Mondadori), presentato al Libraccio con Maria Letizia Magnelli presidente dell’Associazione Culturale Are-té e il prof. Alberto Mattei, a moderare Chiara Dino.Il “dolore che non si può dire” è l’endometriosi, una malattia cronica dalle cause non del tutto chiare e senza una cura definitiva, che colpisce molte donne ma poco riconosciuta e ancora poco detta. Tra le altre cose provoca cicli mestruali molto abbondanti e dolorosi, una sofferenza incompresa dagli altri perché “tutte hanno i dolori del ciclo, che sarà mai”. Tea Ranno la paragona a “un cane dai denti aguzzi, un fuoco che brucia”. Il memoir inizia con un risveglio all’ospedale: Tea ha quarantacinque anni ed è appena stata operata d’urgenza per un’infezione che, partita dall’utero, è arrivata a infuocarle l’intestino, il fegato, i polmoni. Soffre di endometriosi da quando è giovanissima, ma questa volta ne è quasi morta. Perché raccontarla? “Per offrire un’opportunità di indagine  a chi legge. Perché le donne che si ritrovano nei sintomi capiscano che avere il ciclo mestruale doloroso non significa che tu hai una soglia del dolore troppo bassa. La cosa più brutta è fingere normalità per un forte senso del pudore. Mi ha già telefonato qualche ragazza per dire che ha finito il mio libro e ha prenotato una visita dal ginecologo, a me basta questo”. La scrittura autobiografica è stata essa stessa dolorosa o di sollievo? “Ho sempre parlato della mia esperienza di endometriosi, però scriverla ha significato fare un confronto dentro di me. Ho potuto essere molto dettagliata perché tengo i diari da quando ero ragazza. Erano i diari del dolore. Non è stato di sollievo, anzi ho cominciato a stare male. Il mio ginecologo mi ha detto che capita quando ci si ritrova a rivivere una situazione di forte stress emotivo”. Cosa vuol  dire scrivere? “Significa tornare lì, al punto esatto del dolore, in quel dolore che diventa eterno perché per raccontarlo deve eternarsi in ogni attimo su cui ti soffermi, in ogni parola che scegli, perché le parole sono spesso sbagliate, non rendono, non sono abbastanza evocative e tu stai lì nel dolore per raccontare il dolore, per dirlo con una parola che non è mai quella giusta, si avvicina ma non è mai quella giusta, e tu sempre lì, a cercare parole, a cancellare e riscrivere per avvicinarti, solo avvicinarti, a quello che provavi quando di dolore morivi, questo è scrivere”.

L'angolo del libro - “Trudy” di Massimo Carlotto

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

“La storia criminale è la scusa per raccontare tutto quello che ci sta intorno”. L’evoluzione del noir secondo Massimo Carlotto. Un autore tra i più conosciuti, dalla sua autobiografia “Il fuggiasco” in poi. Lo testimonia la lunga fila per il firmacopie alla “Colazione con l’autore” presso la Libreria Rinascita di Sesto Fiorentino dove i lettori che di lui tutto hanno letto sono lì per la presentazione di “Trudy” (Einaudi).Una domenica mattina diversa dalle altre perché un caffè in comunione rende più informale parlare di libri e politica. “La letteratura di genere si trasforma continuamente”, prosegue Carlotto, “Oggi pensare che sia solo una storia criminale è sbagliato. A me piace molto raccontare il contesto e tu come scrittore hai il dovere di riportare la complessità della nostra società all’interno della narrazione”. “Trudy” è un romanzo sul lato oscuro dei potenti. Il crimine cambia insieme alla società. Si parla di lavoro, sicurezza, finanza, politica, con protagonisti un ex commissario ai vertici di un’agenzia di security e una giovane di provincia il cui marito è scomparso. Ma tutti i personaggi sono importanti.“Ho un quaderno per ognuno di loro”, spiega Carlotto, “e scrivo molto prima di iniziare il romanzo; il lettore deve percepire una serie di cose quindi l’autore deve sapere cosa pensa, cosa vota, i suoi gusti, conoscerlo in profondità. I personaggi si incontrano nella storia o nella realtà, devono sempre essere aderenti all’ambiente raccontato”.Quali temi deve affrontare la letteratura oggi? “Il lavoro, ma non se ne parla più. Per me è diventato un’urgenza quando si è scoperto che all’interno della più grande tipografia di Europa, che stampa i nostri libri, c’erano dei lavoratori pakistani in condizioni di semi-schiavitù, tutti insieme in una casa, svegliati di notte, dei fantasmi”. Ambientato anche in Toscana, oltre che in Lombardia ed Emilia Romagna, il romanzo nasce dopo una gestazione di due anni: “dopo un’inchiesta di tipo  giornalistico, i dati raccolti usati per la finzione romanzesca. La letteratura poliziesca di oggi è consolatoria ma non è vera, la realtà è più complessa. Ritaglio gli articoli dei giornali dei fatti di cronaca e li conservo in faldoni. A volte i miei romanzi nascono anche da indicazioni dei lettori”. Un autore consigliato? “James Lee Burke, un matto della Louisiana che scrive cose molto strane”.

Maria Concetta Salemi si aggiudica “L’Artusino”

Venerdì 19 aprile si è svolta la serata letteraria al Ristorante “L’Artusino” di Cerbaia

Si è svolta ieri sera a Cerbaia la cerimonia conclusiva del Premio Artusino, giunto alla terza edizione. Dopo una lunga discussione tra i giurati Milko Chilleri, Paolo Ciampi, Paolo Mugnai, Paolo Pellegrini e Francesca Tofanari, la vincitrice è risultata Maria Concetta Salemi con “Mangiare nel Medioevo” (Sarnus, 2018).In qualità di vincitore dell’edizione precedente, Gigi Paoli ha consegnato il premio a Maria Concetta Salemi, con la seguente motivazione: “Nel suggestivo saggio di Maria Concetta Salemi, ci si immerge nelle profonde radici della cultura gastronomica medievale, un'epoca in cui i supermercati non erano ancora concepiti e le tavole erano governate dalla stagionalità dei prodotti. Con maestria e dettagliato realismo, l'autrice ci conduce attraverso un viaggio culinario che riflette l'integrazione progressiva di tradizioni mediterranee e nordiche, delineando le differenze geografiche e culturali che caratterizzavano le pietanze e gli usi alimentari. All'interno delle pagine di questo libro, vengono esaminati minuziosamente i vari metodi di preparazione e cottura dei cibi, con un focus particolare sui condimenti e sull'uso sapiente delle spezie, così come sulle abitudini di consumo dell'epoca. Emergono dettagli affascinanti sulla ritualità del servizio in tavola, sull'utilizzo degli utensili comuni e sul comportamento dei commensali, mostrando come il ruolo del cuoco nel Medioevo non fosse solo quello di un esperto dei fornelli, ma comprendesse anche nozioni di medicina e rispetto dei divieti alimentari, sia essi derivanti da tabù che da precetti religiosi. Un aspetto peculiare dell'età medievale, ampiamente esplorato nel testo, è rappresentato dai giorni di "grasso" e di "magro", che regolavano il consumo alimentare in base alle tradizioni religiose e sociali del tempo, delineando i confini tra ciò che poteva essere gustato e ciò che doveva essere evitato. La chiusura dell'opera è riservata a una sezione dedicata alle ricette medievali, selezionate con cura dai testi degli antichi gastronomi, e organizzate per portate, dalla fase dell'aperitivo fino ai dolci. Queste ricette, adattate al gusto moderno, offrono un'opportunità unica di riportare in vita i sapori e le tradizioni culinarie di un'epoca lontana, rendendo tangibile la storia attraverso il gusto e l'esperienza sensoriale”.Meritevoli anche le opere degli altri scrittori ammessi in finale: “La Fiorentina. Osti, macellai e vini della vera bistecca” di Aldo Fiordelli (Gruppo Editoriale, 2019); “Toscana Racconti, leggende e sapori” di Andrea Gamannossi (Sarnus, 2018); “Le stories di #Artusi” di Luisanna Messeri e Angela Simonelli (Giunti, 2019).Arrivederci all’edizione 2025

L'angolo del libro - “Il ritorno” di Marco Vichi

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Marco Vichi non è solo il Commissario Bordelli, è molto di più. È un narratore che attinge dal reale per raccontare le sue storie. Lo fa con un linguaggio talvolta crudo ma necessario, secondo il contesto, mai per una parvenza pulp. Nel suo ultimo libro, “Il ritorno” (Guanda edizioni), presentato al Libraccio con Valerio Aiolli, Vichi è ancora più diretto. LA TRAMA - Lo richiedono il suo personaggio principale, Maria nata  Mario, e chi ha vissuto sulla propria pelle la guerra nell’ex Jugoslavia. Sì, perché la storia privata di una disforia di genere si inserisce in quella collettiva storica. Se Vichi già rifiuta, a ragione, l’etichetta di giallo per i libri del Commissario Bordelli, la sua ultima pubblicazione è ancora più difficilmente identificabile. Una storia drammatica, scritta nel suo stile. Siamo nell’Italia degli anni Ottanta e Mario non si riconosce nel suo corpo maschile. La madre se ne va presto e il padre è incapace di far fronte a un figlio che si sente una ragazza. Mario diventa una prostituta per potersi pagare l’operazione in una clinica privata in Turchia e diventare completamente Maria. Il ritorno a cui fa riferimento il titolo del libro è appunto quello di Maria che nel suo rientro verso l’Italia rimane bloccata nella guerra in Bosnia durante il disfacimento della Jugoslavia. Due temi enormi si alternano così nel libro, le violenze terribili della guerra e quelle nell’anima di Maria.INTERVISTA A MARCO VICHI - “Avevo seguito molto le vicende dell’ex Jugoslavia in documentari e interviste e mi è rimasta dentro”, spiega Vichi, “tanto che le storie  più cupe di questo romanzo sono vere anche se rese narrative. Le ho fissate sulla carta per rispetto a chi ha subito quelle violenze, volevo raccontarle fino in fondo”. Da Bordelli a una storia di questo tipo cambia il processo di scrittura? “Sono due mondi diversi. Il commissario ha il suo palcoscenico, conosco il teatro, la platea, il suo panorama sentimentale e all’interno di tutto questo ogni volta salta fuori qualcosa di diverso. Qua mi lancio in territori sconosciuti ed è un mio grande divertimento, mi piace. Quando scrivo, entro in una sorta di trance. Il momento della scrittura è un mio nutrimento, non potrei farne a meno, quindi non provo difficoltà quando una storia, una situazione, un personaggio mi chiama”.

L'angolo del libro - “Calcio invenzione infinita” di Sandro Picchi e Marco Viani

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Più che un libro è un’enciclopedia del calcio, da centellinare in una lettura attenta a dati, notizie e curiosità, perché ogni capitolo offre una nuova storia. “Calcio invenzione infinita” (edito da Conti Tipocolor) dello scrittore e maestro di giornalismo sportivo Sandro Picchi e dell’ex calciatore e collaboratore del Settore Tecnico della Figc Marco Viani è un volume ambizioso che mantiene le sue premesse. 766 pagine, 161 capitoli, oltre 650 fotografie e sezioni con QR code che rimandano a video sono il frutto di quattro anni di lavoro. “Un’impresa anche impaginarlo”, dice il coautore del libro e Presidente di Firenze con Te ODV Marco Viani alla presentazione del volume all’Educandato Statale SS. Annunziata insieme al Presidente della Fiorenza Wheelchair Hockey Marino Brancaccio, alla designer editoriale Angela Manetti e ai giornalisti Lucia Viani e Pippo Russo. “Senza memoria non si va lontano”, prosegue Viani, “questo libro dovrebbe arrivare agli educatori e ai dirigenti sportivi”. Il sottotitolo è “Le prime volte, le idee, i gesti, le tattiche, gli avvenimenti che hanno segnato il cammino del gioco più popolare  del mondo”. Questo è il calcio, un fenomeno sociale che riguarda tutti,  da chi gioca in strada e all’oratorio fino ai celebrati campioni ai Mondiali. Dalla prima partita il 26 dicembre 1860 tra Sheffield e Hallam, a quelle giocate nei lager nazisti o in carcere nel Sudafrica di Nelson Mandela. Dall’evoluzione della tattica e del regolamento ai rigori calciati nei modi più impensabili. Le tragedie del Grande Torino, del Manchester United e della Chapecoense; il calcio alle Olimpiadi, femminile, a cinque, per persone disabili. Come scrive Marco Viani: “Non si smette mai di giocare a calcio. Lo si inventa e si ritorna giocatori anche quando le tue gambe non possono più rincorrere un pallone, sensibili solo nel sogno a un tocco di palla. Questo libro è il mio modo di continuare a giocare a calcio”. Il ricavato del libro servirà ad acquistare un pulmino attrezzato per le trasferte della società di hockey in carrozzina Fiorenza Wheelchair. “Calcio invenzione infinita” ha un prezzo di 80 euro e può essere richiesto direttamente a Firenze con Te ODV tel. 055602382 – 3494938324 firenzeconte@gmail.com

Premio Artusino

Quattro autori a tavola. Una serata letteraria per valorizzare quattro libri di autori editi negli ultimi cinque anni

Una serata letteraria per valorizzare quattro libri di autori editi negli ultimi cinque anni e selezionati per la terza edizione del “Premio Artusino”. Dopo il primo biennio dedicato alla letteratura giallo/noir e le edizioni vinte rispettivamente nel 2022 da Marco Vichi con “Ragazze smarrite” (Guanda) e nel 2023 da Gigi Paoli con “Diritto di sangue” (Giunti), nel 2024 e nel 2025 il Premio è dedicato alla letteratura enogastronomica. La giuria - composta da Milko Chilleri, Paolo Ciampi, Paolo Mugnai, Paolo Pellegrini e Francesca Tofanari - premierà uno tra questi volumi: “La Fiorentina. Osti, macellai e vini della vera bistecca” di Aldo Fiordelli (Gruppo Editoriale, 2019); “Toscana Racconti, leggende e sapori” di Andrea Gamannossi (Sarnus, 2018); “Mangiare nel Medioevo” di Maria Concetta Salemi (Sarnus, 2018); “Le stories di #Artusi” di Luisanna Messeri e Angela Simonelli (Giunti, 2019). La cerimonia di premiazione, aperta a tutti, si svolgerà la sera del 19 aprile dalle ore 20 al ristorante “L’Artusino” di Cerbaia, che proporrà per la cena un menù toscanissimo al prezzo di 25 euro. Sarà Gigi Paoli, salito sul podio nella scorsa edizione, a premiare il vincitore di quest’anno con una targa e una copia del libro di Pellegrino Artusi “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”. Durante la serata sarà possibile acquistare i libri in concorso al corner della libreria Centrolibro di Scandicci, presente in sala insieme agli autori. Per info e prenotazioni 3396618788

L'angolo del libro - “Settanta volte sette. Quanto siamo disposti a perdonare?” di Alex Mar

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

In un pomeriggio di primavera del 1995 a Gary in Indiana una ragazzina nera di 15 anni, Paula Cooper, uccise con più di trenta coltellate un’anziana catechista bianca di 78 anni, Ruth Pelke, durante un violento tentativo di furto. Il procuratore della Contea di Lake chiese la pena di morte per Paula nonostante la sua giovanissima età. Quel fatto di cronaca scosse le coscienze in tutto il mondo giungendo fino in Vaticano e milioni di persone firmarono una petizione a favore di Paula con l’obiettivo di porre fine alla pena di morte per gli adolescenti. Da questa storia vera la newyorchese Alex Mar ha tratto un libro, “Settanta volte sette” (Il Pellegrino Edizioni, traduzione di Augusto Monacelli), ma “più che il crimine, mi ha interessato la relazione creatasi tra Paula e Bill”, spiega l’autrice alla presentazione del volume alla Libreria Claudiana. Bill era il nipote della vittima e perdonò la giovane assassina della nonna. Andando contro la volontà della sua famiglia e degli amici, Bill chiese di risparmiare la vita a Paula. Le tese la mano fino a offrirle la sua amicizia e nacque così una corrispondenza epistolare, analizzata da Alex Mar insieme a molti altri documenti e a una serie di interviste a familiari e amici delle persone interessate in questa drammatica vicenda. “Gesù ha detto di perdonare fino a settanta  volte sette e io sapevo che perdonare era la cosa giusta da fare”, dice Bill citando la Bibbia e dando così senza saperlo il titolo più giusto a questo libro, con il sottotitolo “Quanto siamo disposti a perdonare?”, che parla di sopravvivenza, crescita, cambiamento di Paula e Bill. Paula Cooper, cresciuta in un contesto familiare violento, fu la prima adolescente rinchiusa nel braccio della morte e sarebbe diventata la vittima più giovane della storia degli Stati Uniti se non fosse stata salvata dalla sedia elettrica. Cambierà, ma non riuscirà a perdonare se stessa. Bill, operaio in un’acciaieria e soldato in Vietnam, appassionato di teologia, si interrogò a fondo prima di impegnarsi in una campagna internazionale contro la pena di morte, seguendo l’evangelico perdono senza limiti. Come nasce questo libro? “Stavo facendo delle ricerche sui crimini violenti commessi dalle donne. Mi sono imbattuta nella storia di Paula: la brutalità, la condanna a morte in giovane età, e Bill, l’uomo che aveva scelto di perdonarla. Volevo capire perché, cosa porta a perdonare?”.

L'angolo del libro - “Le conoscevo bene” di Elisabetta Vagaggini

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Le donne nel cinema? “Bamboline fragili o padrone della scena? Docili strumenti nelle mani dei registi o eroine portatrici di interpretazioni che hanno dato una precisa connotazione ai film?” Se lo chiede Elisabetta Vagaggini, giornalista e autrice di “Le conoscevo bene. Storie di donne che fanno il cinema” (Edizioni La Vela). Il libro, con la prefazione di Eugenio Giani e le introduzioni di Maresa D’Arcangelo, Stefano Socci e Valentina Torrini, affronta una serie di periodi storici del cinema, dal muto fino ai nostri giorni, rilevando alterne vicende e ruoli delle attrici nel corso del tempo. Completano il volume i ritratti di otto  famose interpreti legate alla Toscana, vincitrici dei David di Donatello e dei Nastri d’Argento, grazie a interviste inedite e dichiarazioni raccolte in occasione di premiazioni, anteprime, conferenze stampa: Stefania Sandrelli, Lucia Poli, Athina Cenci, Laura Morante, Alba Rohrwacher, Elena Sofia Ricci, Sandra Milo scomparsa di recente e Barbara Enrichi. Proprio la popolare Selvaggia del “Ciclone” di Leonardo Pieraccioni, con cui si aggiudicò il David di Donatello come migliore attrice non protagonista, era alla Mediateca Toscana alla presentazione del libro insieme a Elisabetta Vagaggini e al critico Stefano Socci. “Ci sono delle attrici che più di altre hanno rotto gli schemi e una di queste è Barbara” – dice Elisabetta. E Barbara, con lo stesso viso sbarazzino e gli occhi aperti sul mondo di quando ha iniziato questo mestiere, conferma: “Selvaggia forse uno dei primi ruoli lgbt, come si dice adesso, nel cinema italiano, un personaggio amatissimo”. Barbara Enrichi insegna recitazione cinematografica e direzione attori al Centro Sperimentale di cinematografia a Milano ma tiene alle proprie radici: “la leggerezza e il sarcasmo dei toscani funziona alla grande per la commedia”. “Qualche anno fa gli sceneggiatori erano quasi tutti uomini” – puntualizza – “quindi raccontavano l’universo maschile con la donna come stereotipo ma adesso ci sono molte sceneggiatrici e registe”. Il grande successo? “Il David molto gratificante, non me lo aspettavo, da un momento all’altro ti riconoscono tutti per strada”. I prossimi ruoli? “Il film ‘Fatti vedere’ in cui interpreto una suora e il cortometraggio ‘MalaMente’ di Giovanni Guidelli in cui sono la capoinfermiera in un manicomio”. Un ruolo mai fatto? “Una donna scura, il contrario di me. Ma è questo il bello dell’attore, una sfida”.

L'angolo del libro - “Aromatica Armonia” di Maurizio Sessa

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Un titolo che è un’allitterazione, “Aromatica Armonia”, e che fa il verso alla “Recondita armonia” prima romanza della Tosca, per un volumetto dedicato a Giacomo Puccini nel centenario della sua scomparsa. Il sottotitolo, “I Caffè di Giacomo Puccini”, invita il lettore a partire da un dettaglio per scoprire tanto, molto di più di quello che si suppone di sapere del grande musicista. “Puccini è un personaggio complesso, diverso da quello che ci è stato tramandato, un uomo dell’Ottocento ma proiettato verso il futuro quindi attuale, di una modernità sconcertante, inconsapevolmente anticipatore dei tempi per la sua movimentata vita privata”, spiega l’autore Maurizio Sessa alla presentazione del testo (ed. Maria Pacini Fazzi) alla Libreria Gioberti dove lo accompagna il giornalista Alberto Andreotti. Una tazzina di caffè come punto di incontro tra persone, o moto di ispirazione, o conforto quando è notte ma nascono le idee migliori. Così era anche per Puccini perché componeva dalle dieci di sera alle tre/quattro di mattina. Lo racconta Sessa, pucciniano convinto ma pronto a riportare la realtà dei fatti sulla base dei documenti, “l’idea di questo libro parte dal ritrovamento di una lettera semisconosciuta nel calderone di un epistolario pieno di latinorum ma anche di parolacce”.In quella lettera Puccini chiede all’amico di infanzia Alfredo Caselli dello storico Caffè Caselli, poi Caffè di Simo, di portargli il caffè a Parigi dove si trovava per incontrarsi con Victorien Sardou, autore di Tosca. Il soggiorno va bene, a parte il caffè italiano che non c’è. E pare di vederlo il Maestro mentre assapora il suo speciale caffè ponce, di solito servitogli da Donna Elvira, e compone, così geniale nella musica ma allo stesso tempo attaccato alle cose terrene, i sigari poi la pipa, le tante donne. E il caffè, presente nella vita e nelle opere, La fanciulla del West e la stessa Tosca. A causa del diabete dovette poi rinunciare allo zucchero e passò al decaffeinato, ma com’era il caffè di Puccini? “Una miscela nuova metà porto come portorico e metà moka”. E attuale dato che ne è appena nata una prodotta dalla torrefazione Caffè Bonito e chiamata non a caso Aromatica Armonia. Il prossimo libro, Sessa? “Dopo l’estate, un volume con immagini inedite che ripercorrel’intera vicenda biografica e musicale di Puccini”.

L'angolo del libro - “Laboratorio di sapori” di Eleonora Riso

Presentazioni fiorentine a cura di Paolo Mugnai

Da cameriera a celebrità il passo è breve. Sembra una favola e forse lo è, quella della ventisettenne livornese Eleonora Riso. Da Masterchef Italia dove ha vinto la tredicesima edizione – la prima toscana a riuscirci – al Conventino Caffè Letterario per presentare il suo libro “Laboratorio di sapori. 80 ricette ganzissime” edito da Baldini+Castoldi, uno dei premi ricevuti insieme a 100000 euro in gettoni d’oro e l’accesso a un prestigioso corso di alta formazione presso ALMA la scuola internazionaledi cucina italiana. All’incontro con i lettori e al firmacopie presente Giulio Picchi, il patron del Cibreo ristorante presso cui Eleonora ha lavorato dal 2018 servendo anche personaggi come Russell Crowe e Jane Fonda. “Dinamite pura”, la definisce Picchi. E così è. Orgogliosamente impacciata, ansiosa, semplice, naturale, aggressiva, restia a ogni cliché, pronta a esplodere. La sala è gremita, di più. Posti a sedere tutti occupati, la gente in piedi in terza fila ad ascoltare la ragazza che ce l’ha fatta. A vederla dal vivo, per capire se è come appare in tv. E lei, con la sfrontatezza di una timidezza esibita - “da tanti anni la combatto facendo l’opposto di quello che uno si aspetta da un timido, per esempio a parlare con le persone divento molesta” – tiene banco tanto che alla fine sarà lei a chiedere ancora domande al pubblico. E continuerebbero all’infinito, da chi si candida al prossimo masterchef, a chi chiede una ricetta, chi vuole l’ingrediente segreto, chi un aneddoto, un gossip sull’esperienza in tv. Ma davvero è così come si vede? “Sì, tre mesi in cui paura e ansia sono l’adrenalina. C’è molta stanchezza fisica e mentale, quello che sai bene altrimenti ti arrangi. C’era chi studiava la sera, io no. Il servizio si concentra nel poco tempo che ti danno, c’è sempre nervosismo. Di solito in cucina sono tutti un po’ schizzati, per questo mi sento nel mio ambiente, stavo per sbottare con chef Scabin ma testa china, silenzio rigoroso e mani all’opera. Con i giudici c’era distacco ed è giusto così, però con Cannavacciuolo bastava uno sguardo”. Con gli altri concorrenti? “Ti trovi fuori dalla tua comfort zone, io sono silenziosa e solitaria di base, lì invece sei a contatto con persone diverse da te così abbassi le difese, apprezzi cose nuove. Una sera siamo usciti per fare il karaoke cinese, ma dei ragazzi ci hanno sgamato allora siamo subito scappati”.Il momento della vittoria? “Un vuoto totale. Ero incredula. Continuavo a girarmi verso i miei compagni per vedere la loro reazione, pensavo che avrebbe vinto uno di loro”. Ma è così importante poi il successo? “Conta fare qualcosa che ti faccia stare bene, non c’è bisogno per forza di eccellere”. Presa ad esempio per il lavoro che svolgeva e per il suo modo di essere, che effetto fa? “Verso chi lavora come cameriera ci sono dei pregiudizi ma io non lo rinnego assolutamente. Mi fa tantissimo piacere pensare che delle persone rivedano i propri disagi rappresentati in tv. Bisogna concentrarsi meno possibile su noi stessi e ascoltare gli altri perché tanto alla fine non gliene frega niente a nessuno di come apparirai”. Il libro contiene ricette ispirate all’equilibrio e all’armonia tra i sapori della cucina giapponese, infatti Eleonora ha vinto Masterchef con un menù chiamato “Ichigo Ichie”, nel senso di apprezzare l’unicità del momento presente. “Quelle nel libro sono le prime sperimentazioni in cucina, spero di perfezionare sempre il mio lavoro”. Ora cosa farai? “Ho il progetto di aprire un posto nella campagna toscana. Ho avuto la fortuna di vivere vicino a Molin del Piano a valle del fiume Santa Brigida in mezzo al bosco. Con dei coinquilini affittavamo le camere e per un mese sono arrivate un sacco di persone. Noi eravamo stupiti perché chi veniva voleva fare un giro all’orto, vedere il miele con le api, mangiavano con noi. Lì ho capito che quella era la sintesi di tutte le mie esperienze ovvero l’accoglienza, la vita campestre, il distacco dal caos cittadino. Voglio un posto che sia qualcosa di più che andare a cena fuori ma coinvolga tanti altri aspetti della nutrizione fino ad arrivare appunto a tavola tutti insieme. Si esce anche per sentirci coccolati e il mio progetto comprende appunto questo, un luogo in campagna per condividere con gli altri un’esperienza totale”.