Chiusi nella propria stanza senza contatti col mondo se non tramite il computer o lo smartphone, più di centomila adolescenti in Italia oggi si recludono volontariamente.
Un fenomeno noto come Hikikomori e titolo anche del libro di Ariela Rizzi e Fabrizio Silei (Einaudi Ragazzi) illustrato da Elisabetta Stoinich e vincitore del Premio Bancarellino 2024.
Alle Giubbe Rosse, storico caffè letterario riaperto lo scorso giugno, nell’ambito della rassegna letteraria curata da Jacopo Chiostri e Maria Cristina Galletti, Ariela Rizzi ne ha parlato con Annie Brechler, che agli hikikomori ha dedicato un capitolo nel suo saggio “L’arte in una stanza”.
Si parla di un libro, ma è l’occasione per una riflessione più ampia sul disagio giovanile, in cui il “ritiro sociale volontario” ne è una delle punte più estreme, ma non fa notizia perché fa del male solo ai diretti interessati e alle loro famiglie. “Non c’era finora una storia così l’abbiamo raccontata noi”, dice Ariela Rizzi, “la via della narrativa è alternativa, una magia, noi ci identifichiamo in quei personaggi. I ragazzi hanno risposto oltre ogni aspettativa, chi lo è si è visto rappresentato, chi non lo è ha capito che non è una vita da vivere quella da hikikomori”.
Il libro narra la storia di Luca e Yukiko, un ragazzo italiano e una giapponese in contatto grazie a internet. Il fenomeno hikikomori è nato infatti in Giappone, ma si è diffuso anche in Occidente.
Come entrare in contatto con chi si isola in uno spazio confinato?
“Bisogna provare a parlarci, ascoltarli, in quella bolla di isolamento. A un certo punto del libro la sorella di Yukiko le chiede: ‘tu come stai?’, ecco va chiesto ai ragazzi, per creare uno scambio con loro. E se ne esce attraverso l’amore”.
Ha conosciuto dei ragazzi hikikomori?
“No, ma portando in giro il libro ho conosciuto tanti ragazzi in difficoltà nello stare al passo con questa società”.
Come è stato scrivere a quattro mani con Silei?
“Bello, perché la scrittura è un processo solitario, un’immersione in se stessi cogliendo quello che vediamo intorno; a quattro mani invece è un confronto serrato, sia nella parte dell’ideazione, sia nella scrittura”.
La tecnologia quindi può essere un male?
“È onnipresente, il telefonino è potentissimo e meraviglioso, ma è anche un’arma di distruzione di massa, perché ci isola pur dandoci l’illusione di essere nel mondo. Come tutti gli strumenti non è buono o cattivo, conta l’uso che se ne fa, e se ne può fare un uso drammatico e autodistruttivo”.
Nella foto: Annie Brechler, Jacopo Chiostri, Ariela Rizzi
Un fenomeno noto come Hikikomori e titolo anche del libro di Ariela Rizzi e Fabrizio Silei (Einaudi Ragazzi) illustrato da Elisabetta Stoinich e vincitore del Premio Bancarellino 2024.
Alle Giubbe Rosse, storico caffè letterario riaperto lo scorso giugno, nell’ambito della rassegna letteraria curata da Jacopo Chiostri e Maria Cristina Galletti, Ariela Rizzi ne ha parlato con Annie Brechler, che agli hikikomori ha dedicato un capitolo nel suo saggio “L’arte in una stanza”.
Si parla di un libro, ma è l’occasione per una riflessione più ampia sul disagio giovanile, in cui il “ritiro sociale volontario” ne è una delle punte più estreme, ma non fa notizia perché fa del male solo ai diretti interessati e alle loro famiglie. “Non c’era finora una storia così l’abbiamo raccontata noi”, dice Ariela Rizzi, “la via della narrativa è alternativa, una magia, noi ci identifichiamo in quei personaggi. I ragazzi hanno risposto oltre ogni aspettativa, chi lo è si è visto rappresentato, chi non lo è ha capito che non è una vita da vivere quella da hikikomori”.
Il libro narra la storia di Luca e Yukiko, un ragazzo italiano e una giapponese in contatto grazie a internet. Il fenomeno hikikomori è nato infatti in Giappone, ma si è diffuso anche in Occidente.
Come entrare in contatto con chi si isola in uno spazio confinato?
“Bisogna provare a parlarci, ascoltarli, in quella bolla di isolamento. A un certo punto del libro la sorella di Yukiko le chiede: ‘tu come stai?’, ecco va chiesto ai ragazzi, per creare uno scambio con loro. E se ne esce attraverso l’amore”.
Ha conosciuto dei ragazzi hikikomori?
“No, ma portando in giro il libro ho conosciuto tanti ragazzi in difficoltà nello stare al passo con questa società”.
Come è stato scrivere a quattro mani con Silei?
“Bello, perché la scrittura è un processo solitario, un’immersione in se stessi cogliendo quello che vediamo intorno; a quattro mani invece è un confronto serrato, sia nella parte dell’ideazione, sia nella scrittura”.
La tecnologia quindi può essere un male?
“È onnipresente, il telefonino è potentissimo e meraviglioso, ma è anche un’arma di distruzione di massa, perché ci isola pur dandoci l’illusione di essere nel mondo. Come tutti gli strumenti non è buono o cattivo, conta l’uso che se ne fa, e se ne può fare un uso drammatico e autodistruttivo”.
Nella foto: Annie Brechler, Jacopo Chiostri, Ariela Rizzi
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