Al Centrolibro di Scandicci non c’era più una sedia libera. I clienti abituali, altri venuti apposta, il circolo di lettura “Il club delle piccole cose”, tutti lì per Nicoletta Verna e il suo secondo romanzo, “I giorni di Vetro” (Einaudi), presentato con Mila Baldi, presidente de Gli Amici del Cabiria, e Andrea Bagni.
Ambientato negli anni del fascismo a Castrocaro, il libro racconta le vicende di due donne opposte ma entrambe resistenti, Redenta e Iris.
“I giorni di Vetro” ha vinto il Premio Manzoni romanzo storico. Perché un libro sulla resistenza? “La resistenza è anche oggi, è sempre, non solo nelle guerre ma anche nelle vite quotidiane, nel resistere ai soprusi piccoli e grandi. La resistenza è stato l’ultimo grandissimo fenomeno collettivo, qualcosa che ci accomuna. Il romanzo storico serve a prendere un tema che sembra vecchio e invece è attuale”.
Come nasce questo libro?
“Trent’anni fa avevo avuto questa idea con un raccontino: una donna molto umile che sposava un terribile gerarca in Romagna. Alla fine è diventato questo libro, con l’arrivo di altri personaggi e della resistenza”.
Un libro anche di memorie familiari?
“È la cosa più autobiografica che abbia mai scritto. Si pensa che le autobiografie raccontino la verità sull’autore e le fiction cose inventate. È falso! Se io dovessi scrivere la mia autobiografia inventerei tanto perché non ci sarebbe niente di interessante da dire, mentre nella fiction posso raccontare tante cose che mi appartengono. Quasi tutto parte da una memoria. La Fafina era la mia bisnonna, Iris si ispira a Iris Versari partigiana in Romagna”.
Chi è Redenta?
“Un personaggio inventato, però si ispira a tante donne di quegli anni che non si ribellavano. Con la sua mitezza, carità, altruismo, la sua energia sottile, il suo non essere protagonista ma esserlo fin dalla nascita perché i suoi fratellini nascono morti e la madre va allora dallo stregone, sarà sempre in bilico tra la vita e la morte”.
La violenza nel libro è molto presente.
“Mi interessava affrontare la radice del male, mi sono ispirata a “Meridiano di sangue” di Cormac McCarthy. La violenza come forma arcaica, innata, irrefrenabile e il fascismo rappresentava la metafora di una violenza sistematica. Dall’altra parte c’è la carità intesa come cristiana evangelica e ho cercato di rendere il disequilibrio tra queste due forze”.
Chi è Vetro?
“Il feroce gerarca fascista che sposa Redenta, perché è un sadico e perché doveva un favore al padre di lei. Un personaggio difficile emotivamente ma facile dal punto di vista narrativo, perché rappresentare il male assoluto è semplice. Vetro è disperato e inseguirà sempre il male. Vetro perché ha perso un occhio nella guerra in Abissinia e se l’occhio è lo specchio dell’anima lui è come se non ce l’avesse l’anima, perché l’occhio è finto”.
Un maestro?
“Fenoglio! Per come lui riesce a unire la questione privata del titolo del suo libro alla grande storia. La storia è un’ombra dietro al protagonista, però persistente, l’ombra che ci segue sempre ma non ci invade mai. Lui in una lettera usa una frase: è un romanzo che sto ambientando nel fitto della guerra, infatti la guerra è ovunque, in ogni riga di Fenoglio, eppure il tema è la sua questione privata, la sua storia. Ho cercato di fare lo stesso, che la storia fosse molto presente ma solo il contesto e mai prendesse il sopravvento, anche perché la voce narrante è di Redenta e lei è un’illetterata, quindi non può raccontare la storia, ma solo il poco che le arriva. Al lettore interessa la sua vicenda, che però trova il proprio essere nella storia”.
Ambientato negli anni del fascismo a Castrocaro, il libro racconta le vicende di due donne opposte ma entrambe resistenti, Redenta e Iris.
“I giorni di Vetro” ha vinto il Premio Manzoni romanzo storico. Perché un libro sulla resistenza? “La resistenza è anche oggi, è sempre, non solo nelle guerre ma anche nelle vite quotidiane, nel resistere ai soprusi piccoli e grandi. La resistenza è stato l’ultimo grandissimo fenomeno collettivo, qualcosa che ci accomuna. Il romanzo storico serve a prendere un tema che sembra vecchio e invece è attuale”.
Come nasce questo libro?
“Trent’anni fa avevo avuto questa idea con un raccontino: una donna molto umile che sposava un terribile gerarca in Romagna. Alla fine è diventato questo libro, con l’arrivo di altri personaggi e della resistenza”.
Un libro anche di memorie familiari?
“È la cosa più autobiografica che abbia mai scritto. Si pensa che le autobiografie raccontino la verità sull’autore e le fiction cose inventate. È falso! Se io dovessi scrivere la mia autobiografia inventerei tanto perché non ci sarebbe niente di interessante da dire, mentre nella fiction posso raccontare tante cose che mi appartengono. Quasi tutto parte da una memoria. La Fafina era la mia bisnonna, Iris si ispira a Iris Versari partigiana in Romagna”.
Chi è Redenta?
“Un personaggio inventato, però si ispira a tante donne di quegli anni che non si ribellavano. Con la sua mitezza, carità, altruismo, la sua energia sottile, il suo non essere protagonista ma esserlo fin dalla nascita perché i suoi fratellini nascono morti e la madre va allora dallo stregone, sarà sempre in bilico tra la vita e la morte”.
La violenza nel libro è molto presente.
“Mi interessava affrontare la radice del male, mi sono ispirata a “Meridiano di sangue” di Cormac McCarthy. La violenza come forma arcaica, innata, irrefrenabile e il fascismo rappresentava la metafora di una violenza sistematica. Dall’altra parte c’è la carità intesa come cristiana evangelica e ho cercato di rendere il disequilibrio tra queste due forze”.
Chi è Vetro?
“Il feroce gerarca fascista che sposa Redenta, perché è un sadico e perché doveva un favore al padre di lei. Un personaggio difficile emotivamente ma facile dal punto di vista narrativo, perché rappresentare il male assoluto è semplice. Vetro è disperato e inseguirà sempre il male. Vetro perché ha perso un occhio nella guerra in Abissinia e se l’occhio è lo specchio dell’anima lui è come se non ce l’avesse l’anima, perché l’occhio è finto”.
Un maestro?
“Fenoglio! Per come lui riesce a unire la questione privata del titolo del suo libro alla grande storia. La storia è un’ombra dietro al protagonista, però persistente, l’ombra che ci segue sempre ma non ci invade mai. Lui in una lettera usa una frase: è un romanzo che sto ambientando nel fitto della guerra, infatti la guerra è ovunque, in ogni riga di Fenoglio, eppure il tema è la sua questione privata, la sua storia. Ho cercato di fare lo stesso, che la storia fosse molto presente ma solo il contesto e mai prendesse il sopravvento, anche perché la voce narrante è di Redenta e lei è un’illetterata, quindi non può raccontare la storia, ma solo il poco che le arriva. Al lettore interessa la sua vicenda, che però trova il proprio essere nella storia”.
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