“Si pensa sempre che quei luoghi siano lontani dal nostro territorio, invece no”. La professoressa Gabriella Nocentini si riferisce a Villa La Selva, un edificio nei pressi di Ponte a Ema, nel comune di Bagno a Ripoli, campo di internamento (o concentramento, “ha lo stesso significato di persone isolate in un punto preciso”) negli anni 1940-1944. Ne parla alla Casa del Popolo “Tre Pietre” in via Carlo Del Greco, dove presenta il suo ultimo libro “Le mura sorde” (apice libri) con Tamara Tagliaferri, consigliera ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati nei campi di concentramento) Firenze e Giovanna Cini, presidente sez. ANPI A.M.E. Agnoletti.
“In Italia campi come Villa La Selva ce ne sono stati una cinquantina”, spiega Nocentini, “e non si possono assolutamente paragonare ai lager nazisti, ma dopo l’8 settembre 1943 divennero campi di transito per quei lager e Villa La Selva lo fu per Auschwitz e Bergen-Belsen”.
Come fonti, l’autrice si è avvalsa dell’archivio storico del Comune di Bagno a Ripoli e dell’archivio di Stato di Firenze, si è confrontata con gli studi dei principali storici sull’argomento e ha raccolto otto testimonianze. Le fotografie arricchiscono il volume, già di per sé documento storico e di valore civile. La villa, requisita alla famiglia ebrea Ottolenghi, dal 1940 fu appunto sede di un campo di internamento.
Come si svolgeva la vita lì dentro?
“Era regolata da circolari ministeriali, non c’era il filo spinato ma le guardie sì. Un sovraffollamento con 220 posti letto, servizi igienici carenti, tubature gelate, mancanza di stufe, ambienti sporchi con parassiti”.
Dopo l’8 settembre ‘43 sotto la Repubblica sociale italiana diventò campo di concentramento provinciale
per ebrei.
“Con la carta di Verona e l’ordinanza di polizia numero 5 si dichiarò che tutti gli ebrei dovessero essere concentrati in appositi campi e Villa La Selva diventò quello della provincia di Firenze”.
Che Firenze era?
“Firenze si distinse per la presenza del commissario prefettizio agli affari ebraici Giovanni Martelloni, che non si occupò solo del sequestro e della gestione dei beni ebraici ma procedeva personalmente agli arresti. Poi c’era Mario Carità, del reparto servizi speciali della polizia politica, che con una rete di delatori operava a Villa Triste dove si torturava e uccideva, la sua famigerata banda si occupò non solo della caccia ai partigiani ma anche agli ebrei”.
Il campo fu liberato il 9 luglio 1944 dai partigiani della Brigata Rosselli. Nel libro sono pubblicati i nomi degli internati a Villa La Selva: “per uscire dalla massa indistinta di numeri e percentuali, anche se tanti forse neppure scritti correttamente perché stranieri”.
Dopo la liberazione del 25 aprile del ’45 che cosa accadde?
“La villa ospitò ebrei provenienti dai lager nazisti di tutta Europa e, dai sopravvissuti alla shoah, nella villa si formarono nuove famiglie. Negli anni Ottanta la villa è stata venduta e oggi è divisa in appartamenti privati. La targa che la commemora non è molto visibile”.
Villa La Selva è diventata un luogo di memoria?
“No, perché pochissimi ne conoscono la storia, i risultati della storiografia arrivano con difficoltà alla consapevolezza e alla memoria di una collettività”.
“In Italia campi come Villa La Selva ce ne sono stati una cinquantina”, spiega Nocentini, “e non si possono assolutamente paragonare ai lager nazisti, ma dopo l’8 settembre 1943 divennero campi di transito per quei lager e Villa La Selva lo fu per Auschwitz e Bergen-Belsen”.
Come fonti, l’autrice si è avvalsa dell’archivio storico del Comune di Bagno a Ripoli e dell’archivio di Stato di Firenze, si è confrontata con gli studi dei principali storici sull’argomento e ha raccolto otto testimonianze. Le fotografie arricchiscono il volume, già di per sé documento storico e di valore civile. La villa, requisita alla famiglia ebrea Ottolenghi, dal 1940 fu appunto sede di un campo di internamento.
Come si svolgeva la vita lì dentro?
“Era regolata da circolari ministeriali, non c’era il filo spinato ma le guardie sì. Un sovraffollamento con 220 posti letto, servizi igienici carenti, tubature gelate, mancanza di stufe, ambienti sporchi con parassiti”.
Dopo l’8 settembre ‘43 sotto la Repubblica sociale italiana diventò campo di concentramento provinciale
per ebrei.
“Con la carta di Verona e l’ordinanza di polizia numero 5 si dichiarò che tutti gli ebrei dovessero essere concentrati in appositi campi e Villa La Selva diventò quello della provincia di Firenze”.
Che Firenze era?
“Firenze si distinse per la presenza del commissario prefettizio agli affari ebraici Giovanni Martelloni, che non si occupò solo del sequestro e della gestione dei beni ebraici ma procedeva personalmente agli arresti. Poi c’era Mario Carità, del reparto servizi speciali della polizia politica, che con una rete di delatori operava a Villa Triste dove si torturava e uccideva, la sua famigerata banda si occupò non solo della caccia ai partigiani ma anche agli ebrei”.
Il campo fu liberato il 9 luglio 1944 dai partigiani della Brigata Rosselli. Nel libro sono pubblicati i nomi degli internati a Villa La Selva: “per uscire dalla massa indistinta di numeri e percentuali, anche se tanti forse neppure scritti correttamente perché stranieri”.
Dopo la liberazione del 25 aprile del ’45 che cosa accadde?
“La villa ospitò ebrei provenienti dai lager nazisti di tutta Europa e, dai sopravvissuti alla shoah, nella villa si formarono nuove famiglie. Negli anni Ottanta la villa è stata venduta e oggi è divisa in appartamenti privati. La targa che la commemora non è molto visibile”.
Villa La Selva è diventata un luogo di memoria?
“No, perché pochissimi ne conoscono la storia, i risultati della storiografia arrivano con difficoltà alla consapevolezza e alla memoria di una collettività”.
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