A Firenze, essere “bischero” non è più soltanto un modo di dire.
È uno stile di vita.
Perché oggi, per restare in centro, per continuare a vivere tra vicoli con nomi che sanno di botteghe
antiche, ci vuole coraggio. E forse anche un pizzico di incoscienza. Da bischeri, appunto.
È bischero chi, avendo una casa in Oltrarno, non la mette a reddito su Airbnb. È bischero chi apre la
serranda del negozio ogni mattina per non vendere una calamita a forma di David. È bischero chi
manda i figli a scuola sotto casa, e non si trasferisce dove c'è più posto per parcheggiare.
Ma forse, senza questi bischeri, Firenze avrebbe già chiuso.
Il centro si svuota, ma non solo di abitanti. Si svuota di scelte quotidiane. Di vite normali. Di quel
vociare che non è il brusio turistico, ma il saluto del vicino, lo sbuffo del motorino, il battibecco dal
negoziante.
E allora sì, forse ci vuole un po’ di bischeraggine per restare.
Per decidere che Firenze non è un bene da capitalizzare, ma un luogo da abitare. Che la bellezza
non si vende a notte, ma si coltiva a bollette e sacchetti dell’umido.
Il bischero moderno è un partigiano urbano: combatte senza clamore, con l’arma dell’ostinazione
quotidiana. E mentre il mondo sfreccia verso l’ottimizzazione di ogni cosa, lui resta.
Fermo, un po’ storto magari, come certe colonne romaniche. Ma saldo.
E a ben vedere, più che bischero, è un eroe.
E l’amministrazione?
E’ in prima linea per il “ritorno dei residenti”, a colpi di delibere e sanzioni.
Ma forse servirebbe meno burocrazia e più visione. Meno inviti a tornare, e più motivi per restare.
E soprattutto, un po’ più di coerenza. Perché non si può fare la guerra a chi affitta e poi incassare
milioni dalla tassa di soggiorno con la stessa disinvoltura con cui si passeggia su Ponte Vecchio.
Perché occorre ricordarsi che il cittadino fiorentino osserva e capisce, e si ricorda. E alla fine, tra
una protesta e un’altra, vota.
Come scriveva Calvino, “la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano”.
Ma se le mani che la governano stringono troppo forte da una parte e sono tese per l’obolo turistico
dall’altra, il rischio è che Firenze diventi un bel teatro muto, con tanta scenografia e pochi attori
veri.
E a quel punto chi resta, più che bischero, diventa l’ultimo spettatore di uno spettacolo squallido.
È uno stile di vita.
Perché oggi, per restare in centro, per continuare a vivere tra vicoli con nomi che sanno di botteghe
antiche, ci vuole coraggio. E forse anche un pizzico di incoscienza. Da bischeri, appunto.
È bischero chi, avendo una casa in Oltrarno, non la mette a reddito su Airbnb. È bischero chi apre la
serranda del negozio ogni mattina per non vendere una calamita a forma di David. È bischero chi
manda i figli a scuola sotto casa, e non si trasferisce dove c'è più posto per parcheggiare.
Ma forse, senza questi bischeri, Firenze avrebbe già chiuso.
Il centro si svuota, ma non solo di abitanti. Si svuota di scelte quotidiane. Di vite normali. Di quel
vociare che non è il brusio turistico, ma il saluto del vicino, lo sbuffo del motorino, il battibecco dal
negoziante.
E allora sì, forse ci vuole un po’ di bischeraggine per restare.
Per decidere che Firenze non è un bene da capitalizzare, ma un luogo da abitare. Che la bellezza
non si vende a notte, ma si coltiva a bollette e sacchetti dell’umido.
Il bischero moderno è un partigiano urbano: combatte senza clamore, con l’arma dell’ostinazione
quotidiana. E mentre il mondo sfreccia verso l’ottimizzazione di ogni cosa, lui resta.
Fermo, un po’ storto magari, come certe colonne romaniche. Ma saldo.
E a ben vedere, più che bischero, è un eroe.
E l’amministrazione?
E’ in prima linea per il “ritorno dei residenti”, a colpi di delibere e sanzioni.
Ma forse servirebbe meno burocrazia e più visione. Meno inviti a tornare, e più motivi per restare.
E soprattutto, un po’ più di coerenza. Perché non si può fare la guerra a chi affitta e poi incassare
milioni dalla tassa di soggiorno con la stessa disinvoltura con cui si passeggia su Ponte Vecchio.
Perché occorre ricordarsi che il cittadino fiorentino osserva e capisce, e si ricorda. E alla fine, tra
una protesta e un’altra, vota.
Come scriveva Calvino, “la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano”.
Ma se le mani che la governano stringono troppo forte da una parte e sono tese per l’obolo turistico
dall’altra, il rischio è che Firenze diventi un bel teatro muto, con tanta scenografia e pochi attori
veri.
E a quel punto chi resta, più che bischero, diventa l’ultimo spettatore di uno spettacolo squallido.
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